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La fotografia nella creazione d'immagine nella musica POP

26/11/2004 34194 lettori
4 minuti

Le immagini sono diventate il nostro vero oggetto sessuale,
l’oggetto del nostro desiderio."
(Jean Baudrillard, L’altro visto da sé, Costa & Nolan, p. 26)

 

La musica pop, intesa come quella produzione musicale "non colta" destinata ad un uso non impegnativo, è un tema davvero interessante per chi si occupa di comunicazioni di massa. Il 9 ottobre 2003 ho discusso la mia tesi di laurea in Semiotica dal titolo "La fotografia nella creazione dell’immagine nella popular music: un approccio semiotico all’opera di Anton Corbijn e di Mark Seliger" nella quale ho tentato di descrivere come la musica pop - attraverso alcuni dei suoi canali di espressione (dischi, stampa musicale, monografie e libri fotografici) - impiega l’immagine fissa, e nello specifico quella fotografica, per trasmettere i propri contenuti, il proprio immaginario "mitico" e, in ultima analisi, le proprie intenzioni promozionali.

In pratica non ho voluto semplicemente descrivere come l’immagine in generale supporta la comunicazione musicale. Ho cercato piuttosto di orientarmi sulle specificità linguistiche proprie del mezzo fotografico e distintive rispetto alle altre tipologie di immagini fisse (disegno, grafica, ecc.). Per cercare di capire come la cara vecchia fotografia abbia ancora qualcosa da dire nel mondo delle comunicazioni di massa e della giovane (e "giovanilista") musica pop, la mia tesi si è basata sull’analisi dell’opera di due tra i principali fotografi di artisti della musica: Anton Corbijn, olandese ma londinese d’adozione, fotografo degli U2, e Mark Seliger, già chief photographer di "Rolling Stone". Al fine di descrivere in che modo la fotografia è in grado di supportare l’immaginario mitico che il pubblico associa ai propri idoli, sono partito dall’ipotesi secondo cui - da un punto di vista semiotico - non c’è poi grande differenza tra l’arte "colta", la pittura per esempio, e le forme espressive della cosiddetta "cultura pop" o "di massa". Entrambe si fondano infatti sul progressivo sedimentarsi di "abitudini estetiche" che col tempo costituiscono i "generi", categoria fondamentale anche in fotografia. Questa somiglianza tra le forme culturali tradizionalmente considerate "alte" e quelle appartenenti al vasto campo del pop rende evidente una volta di più quanto la suddivisione ottocentesca, ancora oggi ricorrente in molti luoghi comuni, tra cultura di élite e cultura delle masse (si pensi agli approcci critici di Adorno) sia ormai fuori luogo.

La tesi si sviluppa poi attraverso un confronto tra la fotografia di Corbijn e di Seliger con l’opera di altri fotografi di rock e di moda, quali per esempio Jean-Baptiste Mondino, David Lachapelle, Stéphane Sednaoui, Floria Sigismondi, e altri ancora. Hanno tutti collaborato con diversi musicisti, per i quali spesso hanno anche girato dei videoclip. Molti di questi fotografi sono noti per le loro immagini forti, controverse e provocatorie: Lachapelle con la sua acuta parodia dello star system, Floria Sigismondi che impiega la fotografia per riflettere sul rapporto tra corpo e tecnologia nella nostra epoca attraverso la rappresentazione dell’orrido, del satanico e dell’ambiguità sessuale (la Sigismondi ha lavorato per Marilyn Manson), o ancora Mondino con la sua rappresentazione glamour del corpo erotico.

Mettendo in parallelo l’opera di Corbijn e di Seliger con quella di alcuni di questi autori, ne ho evidenziato le somiglianze e - più che altro nel caso di Corbijn - le differenze. Corbijn sembra infatti essere sempre stato al di fuori della logica del "piacere del testo" (l’espressione è di Roland Barthes), quella logica per cui l’immagine diventa capace di produrre un piacere estetico che va ben al di là del semplice gusto per il bello. Quella di Corbijn è sì una ricerca estetica, ma lontana da quel piacere "sensuale" che fotografi come Mondino, o in parte lo stesso Seliger, sembrano voler costruire sulla figura stessa dell’artista fotografato. Come sottolinea Baudrillard nella citazione iniziale, ormai l’immagine ha acquisito una potenza sensuale (in senso etimologico: "dei sensi") assolutamente inedita. Lo vediamo nella pubblicità, nella moda, ma anche nella stessa musica pop: la rappresentazione iconica, specialmente quella del corpo, è diventata ricerca del piacere sensuale, in alcuni casi più o meno esplicitamente sessuale. Non mi riferisco solo alla rappresentazione della sensualità vera e propria (ad esempio i nudi sulle copertine dei newsmagazine); a volte questo piacere sensuale è ben più sottile. Pensiamo all’impiego di un fascino estetico più complesso nella rappresentazione delle boyband, ottenuto grazie ad una sapiente miscela di una giusta tipologia fisica (il biondino con la faccia d’angelo), di un giusto look (abbigliamento, taglio di capelli) e di un azzeccato stile comportamentale (coreografia, gestualità e modo di esprimersi nelle interviste). Ecco che questo piacere ha come suo mezzo d’elezione proprio l’iconografia, e la fotografia innanzitutto: il piacere quasi erotico è quello che garantisce alle boyband il loro eterno seguito di ragazzine che usano le immagini dei loro amati cantanti come strumento "fisico" per raggiungerli, per farli loro, per possederli. Una nuova forma di venerazione dell’immagine, qualcosa che la cultura occidentale tutto sommato - benché sotto altre forme più nobili - conosce da secoli. In fondo l’iconografia sacra non parte dalla stessa esigenza di avvicinamento all’Idolo? Ecco quindi il significato delle opere di Pierre et Gilles, il duo di fotografi che da anni crea immagini - mix di pittura e fotografia - in cui giovani dai corpi perfetti, modelli provenienti dal mondo della moda, sono i protagonisti di scene che riprendono l’iconografia dei santi della tradizione cristiana. Celeberrimo il loro San Sebastiano che, come tutti gli altri protagonisti delle "immaginette sacre" di Pierre et Gilles, è rappresentato su uno sfondo naturale benché irreale caratterizzato da colori tenui, sfumati e con una luce che rende la superficie del corpo assolutamente pittorica.

Per Corbijn, invece, è tutto diverso. Egli va controcorrente, ricercando il piacere estetico nella fotografia, nella sua realizzazione - nel suo linguaggio - e non nel soggetto. Il piacere è meno fisico e più intellettuale. Meno erotico e più linguistico: è il piacere di adoperare certi "stili" fotografici, e quindi un certo tipo di colore, un certo tipo di grana fotografica, un certo tipo di composizione, una certa idea di fondo. Un po’ quello che fanno molto fotografi "classici" al di fuori dalla logica del piacere testuale tipica dell’universo pop (pensiamo al bianco e nero di Doisneau o di Cartier Bresson).

L’universo delle pop cultures sembra proprio essere un mondo a parte. Non va dimenticato infatti che il grosso dei fruitori dell’immagine contemporanea - specialmente quando parliamo di musica - è costituito da adolescenti e da giovani adulti, categorie sociali che da quarant’anni a questa parte si sono ritagliate in tutte le società occidentali una loro autonomia in fatto di interessi, occupazioni, divertimenti e anche in fatto di estetica e di mode. Ecco che i giovani avvertono la necessità di distinguersi, di eleggere propri idoli, di identificarsi in un certo tipo di immagini; immagini che l’universo delle comunicazioni di massa propone - e non impone, come si vorrebbe far credere - ad uso e consumo delle nuove generazioni, creando così le basi di un complesso scambio comunicazionale in cui autori (case discografiche ed emittenti radiotelevisive) e fruitori (i giovani stessi) cooperano nel processo di formazione di senso.