Torri, Scatole cinesi, nodi e flussi:
Il crollo delle due torri ha esaurito il modernismo: prima dell’11
settembre le due torri, ma a questo punto, un intero modo di costruire,
erano il simbolo della possibilità per ogni statunitense di diventare
il migliore in qualcosa; erano state costruite così alte perché,
per una serie di fattori tecnici, potevano oscillare al vento; erano quindi,
un emblema di potenza ma anche di stabilità e di elasticità;
erano inoltre il simbolo di una giustificata “differenza”
basata però sul fatto che chi è il migliore deve stare più
in alto. L’attacco beffardo e la reazione degli Stati Uniti, molto
simile a quella di Polifemo verso Ulisse, hanno messo in moto qualcosa
di cognitivamente, estremamente grottesco: il gigante è apparso
cieco, stordito, fragile e arrogante, ma sempre in grado di comandare;
suda freddo, ha i capelli dritti ma riesce a rassicurare tutti o quasi…
Il modernismo, scaturito da una esagerata fiducia nella tecnologia, con
i suoi <<familiari, sottili e alti caseggiati scintillanti, le prospettive
di pilastri in cemento armato e i rettangoli ripetuti all’infinito>>
si è esaurito nel momento in cui non ha minimamente tenuto conto
dello “sfondo”, l’ambiente che ci circonda, in un momento
in cui invece era basilare che ciò avvenisse.
E’ anche vero che, quando un insieme si esaurisce in realtà
si sta solo trasformando, retrocedendo sullo sfondo; oppure si può
dire che stia morendo ma che i semi che aveva piantato stanno già
dando i loro frutti. Così, vetro e acciaio, elementi strutturali
del modernismo, rimangono e sono portanti di un nuovo modo di costruire,
in verità evidente conseguenza dello stesso modernismo mutuato
dal postmoderno; succede così: quando il gotico si è preso
tutto il mondo e il Romanico sembra ormai sepolto, arriva il Rinascimento,
che critica il padre gotico e si affeziona al nonno romanico; in quel
momento il padre gotico-modernista riconosce i propri limiti e da ragione
al figlio-Rinascimento, lo manda avanti e si defila sullo sfondo. Questa
è una legge della vita delle forme.
Il modernismo si era preoccupato solo della “figura”, solo
di se stesso, sempre concentrato sull’ambizione di arrivare, di
essere “il più”, come si direbbe qui a Borgo; ma a
questo punto della storia le necessità diventano altre; non più
monumentalità, non più basi per le sculture, non più
“spigoli” nelle costruzioni e nei quadri, ma linee fluide,
senza centro; linee di cui non si intravede la fine né l’inizio,
linee curve che elimino le differenze, e soprattutto non strutture ascendenti
di tipo gotico, ma relazioni con l’ambiente, non più sottostante
ma equistante.
Il vetro, in questo senso può essere d’aiuto, sia per l’interno
che per l’esterno del museo, perché oltre ad essere un elemento
che si presta a rappresentare la fluidità delle cose, trasmette
quell’idea di trasparenza che è divenuta necessaria perché
sinonimo di chiarezza, da parte di chi non ha nulla da temere e quindi
si può far guardare dentro: <<L’uso del vetro in architettura
è finalizzato a scopi igienici ed economici; le sue proprietà
formali consentono al progettista di mettere in evidenza lo scheletro
strutturale del sistema; sul piano simbolico, l’architettura del
vetro diventa la personificazione della perfezione e della purezza>>…
Hans Ibelings è chiarissimo: <<se vogliamo portare la cultura
ad un livello più alto siamo costretti a trasformare la nostra
architettura. E ciò sarà per noi possibile soltanto se elimineremo
dagli spazi in cui viviamo il carattere di chiusura. Questo però
possiamo farlo solo introducendo la architettura del vetro, che lascia
passare la luce del sole e della luna, non soltanto attraverso un paio
di finestre, ma anche attraverso il maggior numero possibile di pareti
che sono di vetro… Riley ricorda la metafora di Jean Starobinski,
il “Poppea’s veil”, in cui il concetto di trasparenza
è rappresentato dal velo attraverso cui Poppea si cela allo sguardo
degli astanti, non per nascondersi, ma per stimolare il loro desiderio>>.
La parete a questo punto, diventa importantissima: retrocessi gli ordini
architettonici, retrocessa quindi una sicura forma di linguaggio, tale
funzione viene ora assunta dalla parete stessa che “viene avanti”
in ordine d’importanza mentre retrocedono (chissà fino a
quando) i capitelli, il ritmo delle colonne, i timpani e tutto quanto
non suggerisce l’idea di levigatezza e leggerezza.
<<Il progressivo concentrarsi dell’attenzione sul valore dell’involucro,
dell’affermarsi della parete come entità progettuale autonoma,
come soggetto della composizione, il suo insinuante interporsi nella dialettica
tra spazio interno e spazio esterno, porterà alla messa in crisi
della “indissolubilità” del loro rapporto che, come
afferma Cesare Brandi, determina il passaggio “da attributo dell’oggetto
a struttura della forma”>>; il che è ancor più
vero se si passa da una parete in vetro intesa però come massa
opaca-attributo (i grattacieli di New York-modernismo) ad una parete in
vetro sinonimo invece di trasparenza-struttura (Berlino oggi, seppure
è un po’ fredda-supermodernismo).
Questo modo di organizzare gli spazi non è proprio una novità
ed anzi, è stato spesso utilizzato da molti architetti, trovando
in quelli che Augè ha definito “non luoghi”, la definizione
più appropriata alle necessità cui questi adempiono:
La volta vetrata sui binari della stazione di Oriente a Lisbona di Calatrava
sembra presagire la fine del modernismo-gotico.
<<I non luoghi>>, afferma Augè, <<si trovano
ovunque e dovunque e tendono a rimanere, per loro natura, indeterminati>>;
essi sono: aeroporti, stazioni ferroviarie, autogrill, alberghi, rave
parties, centri commerciali e supermarkets: vale a dire tutti quei siti
dove non ci si ferma a lungo, (di solito), i quali sono estremamente accoglienti
e che non hanno alcuna ragion d’essere se non quella di rappresentare
luoghi di passaggio o tappe necessarie, apri porta di nuovi scenari e
spesso e volentieri “ripetizioni di se stessi” o almeno dell’atmosfera
che trasmettono: un autogrill è quasi sempre uguale a se stesso,
sia che si trovi sull’A1, sia che sia sulla E35, così come
l’ambiente di un Holiday Inn olandese e uno moscovita. I non luoghi
tendono ad acquisire quell’elemento di familiarità proprio
perché “uniformi”, e si può ragionevolmente
dire che sono frutto del sistema della globalizzazione; <<Spogliati
il tempo e lo spazio dei loro eccessi, rimane un’idea che è
ora generalmente accettata, ossia che ogni cosa, al giorno d’oggi,
possa accadere dovunque, se necessario, simultaneamente. Che aeroporti,
nodi infrastrutturali e autostrade possano essere i moderni catalizzatori
dell’urbanistica, è tanto logico quanto la formazione, nei
tempi antichi, di insediamenti umani nel luogo dove due strade si intersecavano
o un fiume era guadabile. La fondamentale differenza è che questo
è accompagnato dal declino del centro della città inteso
come un fulcro di vita, portando a una totale trasformazione del concetto
classico di polis: da entità interamente contenuta in un elemento
chiuso in sé a territorio urbanizzato diffuso>>, policentrico
e pulviscolare. Los Angeles è un esempio assai citato di città
del futuro del mondo occidentale: una vastissima area urbanizzata senza
una forma coerente e una gerarchia strutturale, né un centro, né
un’unità: un’eteropoli…lo stesso si sta manifestando
a Tokio, Hongkong e Singapore, ma si può dire che questo tipo di
sviluppo ha lo stesso andamento per ogni grossa metropoli del globo. <<E’
tipico di quest’epoca che l’eteropoli sia descritta in termini
negativi come una città senza forma o piano, dove perfino l’architettura
sembra essere caratterizzata da un’assenza di segni di distinzione,
dalla neutralità; in molti casi sembra che tali edifici possano
ospitare, in un certo senso, ogni possibile funzione: un ufficio o una
scuola, una banca o un centro di ricerca, un hotel o degli appartamenti,
un centro commerciale o un terminal aeroportuale>>. Ovviamente il
museo non deve essere né avere “uniforme”, ma deve
cercare di cogliere quell’atmosfera che emanano alcuni aeroporti
e alcune stazioni ferroviarie di recente costruzione; non deve ospitare
qualsiasi funzione, ma la propria e basta; il museo cosiddetto “neutro”,
vale a dire il museo che può accogliere di tutto, qualsiasi arte,
non esiste, perché il modo di disporre uno spazio, anche solo cinquant’anni
fa, era totalmente diverso dal modo di attrezzare un ambiente oggi e lo
è ancora di più rispetto a quei luoghi, come la National
gallery di Londra, in cui la disposizione in linea retta dei quadri (che
si susseguono l’uno all’altro con ritmo che varia al variare
della grandezza del quadro), facilita quel modo di vedere sequenziale
reso oggi obsoleto dalla nostra relazione coi nuovi media.
La disposizione dei quadri in modo più o meno lineare all’interno
del museo, dopo la fotografia, il cinema e Duchamp, è venuta meno,
perché al cervello è venuto in mente che lo spazio, se veniva
considerato in modo “costellativo”, avrebbe rispecchiato di
più i nostri processi cognitivi esaltandoli; l’artista, che
nel corso del xx secolo, ha espresso più chiaramente questo concetto
è stato Lucio Fontana, che proprio a partire dall’introduzione
della televisione,<<nel 1949 utilizzò la luce di Wood per
realizzare un “ambiente spaziale”: l’installazione ambientale
mirava a creare nello spettatore sensazioni inconsuete e capaci di mettere
in dubbio le più radicate consuetudini percettive>>. In poche
parole uscì dall’oggetto e entrò nello spazio, anticipando
anche l’idea di “internet”. Oggi, le strutture dei luoghi
e dei non luoghi di consumo hanno struttura comune quantomeno arrivati
ad un certo punto del loro sviluppo, quello favorito dal fenomeno “globalizzazione”:
che si tratti di un museo, di un cinema o di un casinò, le “cattedrali
del consumo” (in questo caso anche spirituale), tendono tutte ad
essere delle scatole (ad esempio il museo), con dentro altre scatole (il
bar, la libreria, il guardaroba), con dentro altre scatole (il computer
con internet nella libreria del museo) e così via.
“Unfolding object” (2002) di John F. Simon, Jr.
Questo concetto di “scatola cinese”, o “Matrioska”
che dir si voglia, al museo non è affatto sconveniente, ma solo
se ben sfruttato. Nei musei italiani si passa da un ambiente all’altro
senza che succeda nulla, come se ci si trovasse sempre nella stessa scatola,
la quale, sarebbe in grado di ospitare qualunque opera d’arte; questo
non deve accadere perché sennò, vedendo uniformità,
il cervello si distrae, quando invece è necessario che rimanga
immerso, che sia lì presente e lì assente. Per tenerlo desto
e sempre attratto bisogna che subisca degli input chiari nel passare,
anche da un luogo all’altro: questi input non sono necessariamente
visivi ma sono anche uditivi, tattili: ad esempio, una sala di un museo
che ospita arte del primo ‘800, oltre a vedere Turner dovrebbe suonare
la Pastorale (in cuffia), la tappezzeria dovrebbe essere quella del tempo
e l’arredamento, che nei musei non viene mai citato, dovrebbe dirci
com’era l’ambiente in cui venivano collocate delle opere d’arte;
questo può essere suggerito anche tramite i nuovi media audio-video.
quando entro in un museo non mi viene suggerita “l’aria che
tirava” al tempo in cui s’è concepita l’opera
esposta.
Nell’esporre un oggetto, lo si deve considerare nell’evolversi
delle cose; bisognerà costruirgli attorno l’ambiente da cui
viene e quello che andrà ad influenzare; bisognerà dire
quali fenomeni culturali ha scatenato l’opera al tempo in cui fu
fatta e di quali fattori è figlia; non bisognerà mettere
pannelli informativi verticali perché chi sta molto tempo in piedi,
come in un museo, non riesce a concentrarsi bene; dovrebbe farlo da seduto
così riposa e mette ordine nei pensieri.
La storia, qui, non dovrebbe essere raccontata in modo cronologico-lineare,
perché questo modo di procedere non è d’aiuto nel
capire come una serie di microeventi si concatenano, determinando poi
alcune conquiste ed alcune perdite. Un approccio di questo tipo spiega
bene il susseguirsi di un evento all’altro: descrive una causa e
poi si occupa dell’effetto: mangia un boccone alla volta; è
come se disegnasse sequenze lineari di figure senza sfondo; ma non è
in grado di dire su quale sfondo mutevole quelle figure si sono formate.
Al massimo può accennarlo perché figlio di un ragionamento
favorito dall’utilizzo dell’emisfero sinistro.
Invece, un approccio “atmosferico” alla storia, mette in risalto,
non tanto il susseguirsi degli eventi, quanto il modo in cui tali eventi
si relazionano. Questo processo (che porta, dalla dissoluzione di un modo
sequenziale di aderire agli eventi storici, alla formazione di flussi
di episodi intersecantisi per connessioni simultanee) ha raggiunto l’apice
della sua espansione durante il secolo appena trascorso e non è
affatto terminato.
Ad esempio, in modo davvero riduttivo, tematicamente parlando, tra l’ultimo
decennio dell’800 e i primi quarant’anni del’900 si
potrebbe dire che è successo questo: la filosofia e Nietzche hanno
ribadito che non esistono fatti ma solo interpretazioni di fatti; Poincarè,
nello stesso periodo, in fisica, (e Duchamp lo ha seguito alla lettera),
affermano che non bisogna concentrare i propri sforzi sulle cose, ma sulle
relazioni tra cose; di lì a poco, la geometria euclidea verrà
accantonata perché non in grado di misurare grandezze con “la
virgola”; la musica, con Berio e Stockhausen arriverà al
completo annullamento della nota (numero senza virgola) per cedere il
passo all’elaborazione di suoni “frattali” (numeri con
virgola); nel frattempo l’arte figurativa, già tecnicamente
riproducibile grazie alla fotografia, decide, proprio perché ripetibile,
di divenire performativa, temporanea e capace di adattarsi all’ambiente.
In poche parole tutte le discipline, umanistiche e non, si sono accorte
che non è esaustivo descrivere la realtà delle cose con
esattezza, perché la realtà stessa varia al variare del
combinarsi delle sue parti, in modo sempre “caotico” ma regolare
(e come se avesse sempre una struttura senza fondo, che non finisce mai),
anche quando come ha dimostrato provocatoriamente Lorenz, “un battito
d’ali d’una farfalla in Australia può causare un tifone
in Nord America”.
La sala di un museo dovrebbe allora essere intesa come si trattasse di
un campo magnetico che occupa un “microcosmo” (la sala) con
equilibri e leggi proprie.
A questo punto si capiscono anche le lamentele di Valery, del ’23,
che dice: <<non amo troppo i musei. Ve ne sono di ammirevoli, ma
nessuno è delizioso. Le idee di classificazione, di conservazione
e utilità pubblica, che sono giuste e chiare, hanno pochi rapporti
con le delizie. Mi trovo in un tumulto di creature congelate, ciascuna
delle quali esige senza mai ottenerla, l’inesistenza di tutte le
altre…L’orecchio non sopporterebbe 10 orchestre insieme. La
nostra eredità ci schiaccia…>>. <<Per quanto
sia suddiviso in epoche, stili e ben organizzato il museo moderno diventa
un luogo dove chi volesse vedere tutto quello che c’è, non
vedrebbe nulla, e se pure guardasse non potrebbe memorizzare>>.
Come detto riguardo all’andamento urbanistico delle metropoli, si
assiste ad un processo sia di “decentralizzazione” che di
“globalizzazione” (o centralizzazione globale), una sorta
di fisarmonica (da una parte ci si separa, dall’altra si converge
a nuovo incontro). Questo vuol dire, che se 10 opere “di peso”
si trovano in una sala di 30 mq la quale non riesce a contenerle disperdendone
i magnetismi, è più indicato suddividere la sala in microaree,
(più facili da contestualizzare), decentralizzando la sala stessa
per poter separare le incongruenze tra le opere esposte; il gigantismo
spaziale è di difficile amministrazione; lo si gestisce bene solo
con opere giganti o destrutturando lo spazio; così, invece, è
più facile entrare dentro l’opera e oltre a questo si recupera
anche l’intimità con l’artista. Non si ha più
quel problema di “congelamento dell’opera” che è
così poco accogliente da parte del museo.
Si è parlato dell’aura che hanno gli oggetti d’arte;
della perdita di questa con la riproduzione seriale assunta nel xx secolo;
eppure eravamo stati avvertiti: nel momento in cui veniva esibito a tutti,
asseriva Benjamin, il capolavoro perdeva la sua aura: <<l’alce
che l’uomo dell’età della pietra raffigura sulle pareti
della sua caverna è uno strumento magico. Egli lo espone davanti
ai suoi simili… le statue degli dei sono accessibili solo al sacerdote
nella sua cella>>.
La pratica adottata da alcuni musei americani di portare gli studi degli
artisti direttamente dentro i musei (Matross Factory, PS1), cosicché
gli artisti possano vivere direttamente in quell’ambiente e creare
la loro atmosfera, in questo senso è la benvenuta.
In Italia questo non avviene, anche perché l’unico museo
d’arte contemporanea è il Castello di Rivoli, e può
contenere solo mostre temporanee o quasi; inoltre come spazio sarebbe
piccolo.
L’Italia è il più grande produttore di arte da sempre
ma non ha neanche un museo adatto a contenere l’arte contemporanea:
non è possibile vedere i Cinetici con lì vicino Forma Uno,
o la Transavanguardia che dialoga o litiga col Pop; per avere un’idea
di arte contemporanea bisogna andare all’estero; l’Arte Povera
italiana è più conosciuta a Londra che dai giovani italiani.
Questo è anche un problema economico, un’uscita di capitale
fuori dalle mura domestiche, e soprattutto un non rientro. Inoltre se
ne parla troppo poco. Questo è davvero urgente ed è importante
che prima o poi venga affrontato. Vi immaginate i turisti che dirottano
da Londra, Berlino, Parigi e New York perché l’arte contemporanea
è “riunita” anche in Italia? Perché andare all’estero
se qui ho Michelangelo, Caravaggio, Turner e Warhol, ognuno al suo posto?
E’ sempre dall’arte che si crea valore; Agnelli ha bisogno
di Bacon per creare valore con le sue macchine; gira voce che spesso,
di ritorno dal lavoro, se lo poggia sulle ginocchia e sta lì a
guardarlo e rimirarlo tutto assorto.
Aprirà a Roma i propri battenti il museo di Zaha Hadid, contenitore
d’arte per il xxI secolo il 2005 prossimo. La struttura della costruzione
bellissima, è quella iperfluida necessaria al xxI secolo: essa,
come da manuale, non ha spigoli, non ha centro, si relaziona all’ambiente
circostante, è trasparente, e non ha struttura ascensionale, ne
è di tipo ripetitivo. Non ha elementi di chiusura, è luminoso
e non contiene massa opaca. Inoltre, visto dal punto di vista del marketing,
l’architettura rispecchierà quella struttura a scatola cinese
emersa coi modelli di cultura “Blockbuster”, senza assumerne
però i caratteri di spettacolarità accentuante.
Questo era quello che ci voleva. Sembra la premessa al nuovo “ordine”
architettonico del xxI° secolo. Non è spettacolare, cioè
non tende ad accentuare le sue parti, né al contrario si può
dire che si tratti di un museo “neutro”, senza carattere.
In pubblicità si dice che, per ogni prodotto, affinchè abbia
una certa redditività sul mercato, bisogna trovare un’unica,
forte argomentazione di vendita, e a meno che, nel corso degli anni, tale
argomentazione si logori, essa va conservata fino a che il ciclo di vita
del prodotto non si esaurisce, cosa che può anche non accadere…
Ci sono dei buoni motivi per prendere un buon cappuccino al bar invece
che farlo a casa: il fatto di esser servito, il fatto che al bar il cappuccino
può essere più buono, il fatto di incontrare qualcuno che
si conosce, ma soprattutto il fatto che il cappuccino del bar ha quella
schiuma morbida che solo al bar viene così bene: se dovessi promuovere
l’immagine del “bar”, farei leva sulla schiuma, cioè
su quel valore aggiunto che solo al bar puoi trovare.
Ma se si trattasse di promuovere l’idea di museo su cosa si potrebbe
puntare? Qual è il valore aggiunto del museo che solo al museo
si può trovare? Facile, l’arricchimento spirituale. Già,
ma come si fa a promuovere un’idea di arricchimento spirituale?
Non so. Bisogna fare il giro largo.
A me sembra che, il motivo per il quale alcune persone non frequentano
musei, è dato da un’idea di inospitalità e di severità
che il museo tende a comunicare; ovviamente non mi riferisco ai musei
d’arte contemporanea, alcuni dei quali sono fin troppo accoglienti,
ma ai musei più antichi, i quali invece risentono di una formalità
visiva data dalla stessa architettura, che ha spesso ampie scalinate prima
di giungere all’entrata del museo, grandi colonnati e porte altissime:
in questo caso, per ristabilire una certa “amichevolezza”
dell’apparato, o si fa in modo di recuperare un ordine sacro ma
laico, oppure si fa in modo di farlo giocare col suo sé; farlo
prendere un po’ in giro, farlo apparire meno serio di quello che
è; bisogna essere un po’ birbanti, in un certo senso dissacrarsi,
come fa da sempre l’arte con se stessa, e come il museo invece non
fa mai.
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