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Un sistema intelligente

17/10/2002 16860 lettori
6 minuti
Torri, Scatole cinesi, nodi e flussi:

Il crollo delle due torri ha esaurito il modernismo: prima dell’11 settembre le due torri, ma a questo punto, un intero modo di costruire, erano il simbolo della possibilità per ogni statunitense di diventare il migliore in qualcosa; erano state costruite così alte perché, per una serie di fattori tecnici, potevano oscillare al vento; erano quindi, un emblema di potenza ma anche di stabilità e di elasticità; erano inoltre il simbolo di una giustificata “differenza” basata però sul fatto che chi è il migliore deve stare più in alto. L’attacco beffardo e la reazione degli Stati Uniti, molto simile a quella di Polifemo verso Ulisse, hanno messo in moto qualcosa di cognitivamente, estremamente grottesco: il gigante è apparso cieco, stordito, fragile e arrogante, ma sempre in grado di comandare; suda freddo, ha i capelli dritti ma riesce a rassicurare tutti o quasi…
Il modernismo, scaturito da una esagerata fiducia nella tecnologia, con i suoi <<familiari, sottili e alti caseggiati scintillanti, le prospettive di pilastri in cemento armato e i rettangoli ripetuti all’infinito>> si è esaurito nel momento in cui non ha minimamente tenuto conto dello “sfondo”, l’ambiente che ci circonda, in un momento in cui invece era basilare che ciò avvenisse.
E’ anche vero che, quando un insieme si esaurisce in realtà si sta solo trasformando, retrocedendo sullo sfondo; oppure si può dire che stia morendo ma che i semi che aveva piantato stanno già dando i loro frutti. Così, vetro e acciaio, elementi strutturali del modernismo, rimangono e sono portanti di un nuovo modo di costruire, in verità evidente conseguenza dello stesso modernismo mutuato dal postmoderno; succede così: quando il gotico si è preso tutto il mondo e il Romanico sembra ormai sepolto, arriva il Rinascimento, che critica il padre gotico e si affeziona al nonno romanico; in quel momento il padre gotico-modernista riconosce i propri limiti e da ragione al figlio-Rinascimento, lo manda avanti e si defila sullo sfondo. Questa è una legge della vita delle forme.
Il modernismo si era preoccupato solo della “figura”, solo di se stesso, sempre concentrato sull’ambizione di arrivare, di essere “il più”, come si direbbe qui a Borgo; ma a questo punto della storia le necessità diventano altre; non più monumentalità, non più basi per le sculture, non più “spigoli” nelle costruzioni e nei quadri, ma linee fluide, senza centro; linee di cui non si intravede la fine né l’inizio, linee curve che elimino le differenze, e soprattutto non strutture ascendenti di tipo gotico, ma relazioni con l’ambiente, non più sottostante ma equistante.
Il vetro, in questo senso può essere d’aiuto, sia per l’interno che per l’esterno del museo, perché oltre ad essere un elemento che si presta a rappresentare la fluidità delle cose, trasmette quell’idea di trasparenza che è divenuta necessaria perché sinonimo di chiarezza, da parte di chi non ha nulla da temere e quindi si può far guardare dentro: <<L’uso del vetro in architettura è finalizzato a scopi igienici ed economici; le sue proprietà formali consentono al progettista di mettere in evidenza lo scheletro strutturale del sistema; sul piano simbolico, l’architettura del vetro diventa la personificazione della perfezione e della purezza>>… Hans Ibelings è chiarissimo: <<se vogliamo portare la cultura ad un livello più alto siamo costretti a trasformare la nostra architettura. E ciò sarà per noi possibile soltanto se elimineremo dagli spazi in cui viviamo il carattere di chiusura. Questo però possiamo farlo solo introducendo la architettura del vetro, che lascia passare la luce del sole e della luna, non soltanto attraverso un paio di finestre, ma anche attraverso il maggior numero possibile di pareti che sono di vetro… Riley ricorda la metafora di Jean Starobinski, il “Poppea’s veil”, in cui il concetto di trasparenza è rappresentato dal velo attraverso cui Poppea si cela allo sguardo degli astanti, non per nascondersi, ma per stimolare il loro desiderio>>.
La parete a questo punto, diventa importantissima: retrocessi gli ordini architettonici, retrocessa quindi una sicura forma di linguaggio, tale funzione viene ora assunta dalla parete stessa che “viene avanti” in ordine d’importanza mentre retrocedono (chissà fino a quando) i capitelli, il ritmo delle colonne, i timpani e tutto quanto non suggerisce l’idea di levigatezza e leggerezza.
<<Il progressivo concentrarsi dell’attenzione sul valore dell’involucro, dell’affermarsi della parete come entità progettuale autonoma, come soggetto della composizione, il suo insinuante interporsi nella dialettica tra spazio interno e spazio esterno, porterà alla messa in crisi della “indissolubilità” del loro rapporto che, come afferma Cesare Brandi, determina il passaggio “da attributo dell’oggetto a struttura della forma”>>; il che è ancor più vero se si passa da una parete in vetro intesa però come massa opaca-attributo (i grattacieli di New York-modernismo) ad una parete in vetro sinonimo invece di trasparenza-struttura (Berlino oggi, seppure è un po’ fredda-supermodernismo).

Questo modo di organizzare gli spazi non è proprio una novità ed anzi, è stato spesso utilizzato da molti architetti, trovando in quelli che Augè ha definito “non luoghi”, la definizione più appropriata alle necessità cui questi adempiono:

La volta vetrata sui binari della stazione di Oriente a Lisbona di Calatrava sembra presagire la fine del modernismo-gotico.

<<I non luoghi>>, afferma Augè, <<si trovano ovunque e dovunque e tendono a rimanere, per loro natura, indeterminati>>; essi sono: aeroporti, stazioni ferroviarie, autogrill, alberghi, rave parties, centri commerciali e supermarkets: vale a dire tutti quei siti dove non ci si ferma a lungo, (di solito), i quali sono estremamente accoglienti e che non hanno alcuna ragion d’essere se non quella di rappresentare luoghi di passaggio o tappe necessarie, apri porta di nuovi scenari e spesso e volentieri “ripetizioni di se stessi” o almeno dell’atmosfera che trasmettono: un autogrill è quasi sempre uguale a se stesso, sia che si trovi sull’A1, sia che sia sulla E35, così come l’ambiente di un Holiday Inn olandese e uno moscovita. I non luoghi tendono ad acquisire quell’elemento di familiarità proprio perché “uniformi”, e si può ragionevolmente dire che sono frutto del sistema della globalizzazione; <<Spogliati il tempo e lo spazio dei loro eccessi, rimane un’idea che è ora generalmente accettata, ossia che ogni cosa, al giorno d’oggi, possa accadere dovunque, se necessario, simultaneamente. Che aeroporti, nodi infrastrutturali e autostrade possano essere i moderni catalizzatori dell’urbanistica, è tanto logico quanto la formazione, nei tempi antichi, di insediamenti umani nel luogo dove due strade si intersecavano o un fiume era guadabile. La fondamentale differenza è che questo è accompagnato dal declino del centro della città inteso come un fulcro di vita, portando a una totale trasformazione del concetto classico di polis: da entità interamente contenuta in un elemento chiuso in sé a territorio urbanizzato diffuso>>, policentrico e pulviscolare. Los Angeles è un esempio assai citato di città del futuro del mondo occidentale: una vastissima area urbanizzata senza una forma coerente e una gerarchia strutturale, né un centro, né un’unità: un’eteropoli…lo stesso si sta manifestando a Tokio, Hongkong e Singapore, ma si può dire che questo tipo di sviluppo ha lo stesso andamento per ogni grossa metropoli del globo. <<E’ tipico di quest’epoca che l’eteropoli sia descritta in termini negativi come una città senza forma o piano, dove perfino l’architettura sembra essere caratterizzata da un’assenza di segni di distinzione, dalla neutralità; in molti casi sembra che tali edifici possano ospitare, in un certo senso, ogni possibile funzione: un ufficio o una scuola, una banca o un centro di ricerca, un hotel o degli appartamenti, un centro commerciale o un terminal aeroportuale>>. Ovviamente il museo non deve essere né avere “uniforme”, ma deve cercare di cogliere quell’atmosfera che emanano alcuni aeroporti e alcune stazioni ferroviarie di recente costruzione; non deve ospitare qualsiasi funzione, ma la propria e basta; il museo cosiddetto “neutro”, vale a dire il museo che può accogliere di tutto, qualsiasi arte, non esiste, perché il modo di disporre uno spazio, anche solo cinquant’anni fa, era totalmente diverso dal modo di attrezzare un ambiente oggi e lo è ancora di più rispetto a quei luoghi, come la National gallery di Londra, in cui la disposizione in linea retta dei quadri (che si susseguono l’uno all’altro con ritmo che varia al variare della grandezza del quadro), facilita quel modo di vedere sequenziale reso oggi obsoleto dalla nostra relazione coi nuovi media.
La disposizione dei quadri in modo più o meno lineare all’interno del museo, dopo la fotografia, il cinema e Duchamp, è venuta meno, perché al cervello è venuto in mente che lo spazio, se veniva considerato in modo “costellativo”, avrebbe rispecchiato di più i nostri processi cognitivi esaltandoli; l’artista, che nel corso del xx secolo, ha espresso più chiaramente questo concetto è stato Lucio Fontana, che proprio a partire dall’introduzione della televisione,<<nel 1949 utilizzò la luce di Wood per realizzare un “ambiente spaziale”: l’installazione ambientale mirava a creare nello spettatore sensazioni inconsuete e capaci di mettere in dubbio le più radicate consuetudini percettive>>. In poche parole uscì dall’oggetto e entrò nello spazio, anticipando anche l’idea di “internet”. Oggi, le strutture dei luoghi e dei non luoghi di consumo hanno struttura comune quantomeno arrivati ad un certo punto del loro sviluppo, quello favorito dal fenomeno “globalizzazione”: che si tratti di un museo, di un cinema o di un casinò, le “cattedrali del consumo” (in questo caso anche spirituale), tendono tutte ad essere delle scatole (ad esempio il museo), con dentro altre scatole (il bar, la libreria, il guardaroba), con dentro altre scatole (il computer con internet nella libreria del museo) e così via.
“Unfolding object” (2002) di John F. Simon, Jr.

 


Questo concetto di “scatola cinese”, o “Matrioska” che dir si voglia, al museo non è affatto sconveniente, ma solo se ben sfruttato. Nei musei italiani si passa da un ambiente all’altro senza che succeda nulla, come se ci si trovasse sempre nella stessa scatola, la quale, sarebbe in grado di ospitare qualunque opera d’arte; questo non deve accadere perché sennò, vedendo uniformità, il cervello si distrae, quando invece è necessario che rimanga immerso, che sia lì presente e lì assente. Per tenerlo desto e sempre attratto bisogna che subisca degli input chiari nel passare, anche da un luogo all’altro: questi input non sono necessariamente visivi ma sono anche uditivi, tattili: ad esempio, una sala di un museo che ospita arte del primo ‘800, oltre a vedere Turner dovrebbe suonare la Pastorale (in cuffia), la tappezzeria dovrebbe essere quella del tempo e l’arredamento, che nei musei non viene mai citato, dovrebbe dirci com’era l’ambiente in cui venivano collocate delle opere d’arte; questo può essere suggerito anche tramite i nuovi media audio-video.
quando entro in un museo non mi viene suggerita “l’aria che tirava” al tempo in cui s’è concepita l’opera esposta.
Nell’esporre un oggetto, lo si deve considerare nell’evolversi delle cose; bisognerà costruirgli attorno l’ambiente da cui viene e quello che andrà ad influenzare; bisognerà dire quali fenomeni culturali ha scatenato l’opera al tempo in cui fu fatta e di quali fattori è figlia; non bisognerà mettere pannelli informativi verticali perché chi sta molto tempo in piedi, come in un museo, non riesce a concentrarsi bene; dovrebbe farlo da seduto così riposa e mette ordine nei pensieri.
La storia, qui, non dovrebbe essere raccontata in modo cronologico-lineare, perché questo modo di procedere non è d’aiuto nel capire come una serie di microeventi si concatenano, determinando poi alcune conquiste ed alcune perdite. Un approccio di questo tipo spiega bene il susseguirsi di un evento all’altro: descrive una causa e poi si occupa dell’effetto: mangia un boccone alla volta; è come se disegnasse sequenze lineari di figure senza sfondo; ma non è in grado di dire su quale sfondo mutevole quelle figure si sono formate. Al massimo può accennarlo perché figlio di un ragionamento favorito dall’utilizzo dell’emisfero sinistro.
Invece, un approccio “atmosferico” alla storia, mette in risalto, non tanto il susseguirsi degli eventi, quanto il modo in cui tali eventi si relazionano. Questo processo (che porta, dalla dissoluzione di un modo sequenziale di aderire agli eventi storici, alla formazione di flussi di episodi intersecantisi per connessioni simultanee) ha raggiunto l’apice della sua espansione durante il secolo appena trascorso e non è affatto terminato.
Ad esempio, in modo davvero riduttivo, tematicamente parlando, tra l’ultimo decennio dell’800 e i primi quarant’anni del’900 si potrebbe dire che è successo questo: la filosofia e Nietzche hanno ribadito che non esistono fatti ma solo interpretazioni di fatti; Poincarè, nello stesso periodo, in fisica, (e Duchamp lo ha seguito alla lettera), affermano che non bisogna concentrare i propri sforzi sulle cose, ma sulle relazioni tra cose; di lì a poco, la geometria euclidea verrà accantonata perché non in grado di misurare grandezze con “la virgola”; la musica, con Berio e Stockhausen arriverà al completo annullamento della nota (numero senza virgola) per cedere il passo all’elaborazione di suoni “frattali” (numeri con virgola); nel frattempo l’arte figurativa, già tecnicamente riproducibile grazie alla fotografia, decide, proprio perché ripetibile, di divenire performativa, temporanea e capace di adattarsi all’ambiente.
In poche parole tutte le discipline, umanistiche e non, si sono accorte che non è esaustivo descrivere la realtà delle cose con esattezza, perché la realtà stessa varia al variare del combinarsi delle sue parti, in modo sempre “caotico” ma regolare (e come se avesse sempre una struttura senza fondo, che non finisce mai), anche quando come ha dimostrato provocatoriamente Lorenz, “un battito d’ali d’una farfalla in Australia può causare un tifone in Nord America”.
La sala di un museo dovrebbe allora essere intesa come si trattasse di un campo magnetico che occupa un “microcosmo” (la sala) con equilibri e leggi proprie.
A questo punto si capiscono anche le lamentele di Valery, del ’23, che dice: <<non amo troppo i musei. Ve ne sono di ammirevoli, ma nessuno è delizioso. Le idee di classificazione, di conservazione e utilità pubblica, che sono giuste e chiare, hanno pochi rapporti con le delizie. Mi trovo in un tumulto di creature congelate, ciascuna delle quali esige senza mai ottenerla, l’inesistenza di tutte le altre…L’orecchio non sopporterebbe 10 orchestre insieme. La nostra eredità ci schiaccia…>>. <<Per quanto sia suddiviso in epoche, stili e ben organizzato il museo moderno diventa un luogo dove chi volesse vedere tutto quello che c’è, non vedrebbe nulla, e se pure guardasse non potrebbe memorizzare>>.
Come detto riguardo all’andamento urbanistico delle metropoli, si assiste ad un processo sia di “decentralizzazione” che di “globalizzazione” (o centralizzazione globale), una sorta di fisarmonica (da una parte ci si separa, dall’altra si converge a nuovo incontro). Questo vuol dire, che se 10 opere “di peso” si trovano in una sala di 30 mq la quale non riesce a contenerle disperdendone i magnetismi, è più indicato suddividere la sala in microaree, (più facili da contestualizzare), decentralizzando la sala stessa per poter separare le incongruenze tra le opere esposte; il gigantismo spaziale è di difficile amministrazione; lo si gestisce bene solo con opere giganti o destrutturando lo spazio; così, invece, è più facile entrare dentro l’opera e oltre a questo si recupera anche l’intimità con l’artista. Non si ha più quel problema di “congelamento dell’opera” che è così poco accogliente da parte del museo.

Si è parlato dell’aura che hanno gli oggetti d’arte; della perdita di questa con la riproduzione seriale assunta nel xx secolo; eppure eravamo stati avvertiti: nel momento in cui veniva esibito a tutti, asseriva Benjamin, il capolavoro perdeva la sua aura: <<l’alce che l’uomo dell’età della pietra raffigura sulle pareti della sua caverna è uno strumento magico. Egli lo espone davanti ai suoi simili… le statue degli dei sono accessibili solo al sacerdote nella sua cella>>.
La pratica adottata da alcuni musei americani di portare gli studi degli artisti direttamente dentro i musei (Matross Factory, PS1), cosicché gli artisti possano vivere direttamente in quell’ambiente e creare la loro atmosfera, in questo senso è la benvenuta.
In Italia questo non avviene, anche perché l’unico museo d’arte contemporanea è il Castello di Rivoli, e può contenere solo mostre temporanee o quasi; inoltre come spazio sarebbe piccolo.
L’Italia è il più grande produttore di arte da sempre ma non ha neanche un museo adatto a contenere l’arte contemporanea: non è possibile vedere i Cinetici con lì vicino Forma Uno, o la Transavanguardia che dialoga o litiga col Pop; per avere un’idea di arte contemporanea bisogna andare all’estero; l’Arte Povera italiana è più conosciuta a Londra che dai giovani italiani. Questo è anche un problema economico, un’uscita di capitale fuori dalle mura domestiche, e soprattutto un non rientro. Inoltre se ne parla troppo poco. Questo è davvero urgente ed è importante che prima o poi venga affrontato. Vi immaginate i turisti che dirottano da Londra, Berlino, Parigi e New York perché l’arte contemporanea è “riunita” anche in Italia? Perché andare all’estero se qui ho Michelangelo, Caravaggio, Turner e Warhol, ognuno al suo posto?
E’ sempre dall’arte che si crea valore; Agnelli ha bisogno di Bacon per creare valore con le sue macchine; gira voce che spesso, di ritorno dal lavoro, se lo poggia sulle ginocchia e sta lì a guardarlo e rimirarlo tutto assorto.
Aprirà a Roma i propri battenti il museo di Zaha Hadid, contenitore d’arte per il xxI secolo il 2005 prossimo. La struttura della costruzione bellissima, è quella iperfluida necessaria al xxI secolo: essa, come da manuale, non ha spigoli, non ha centro, si relaziona all’ambiente circostante, è trasparente, e non ha struttura ascensionale, ne è di tipo ripetitivo. Non ha elementi di chiusura, è luminoso e non contiene massa opaca. Inoltre, visto dal punto di vista del marketing, l’architettura rispecchierà quella struttura a scatola cinese emersa coi modelli di cultura “Blockbuster”, senza assumerne però i caratteri di spettacolarità accentuante.
Questo era quello che ci voleva. Sembra la premessa al nuovo “ordine” architettonico del xxI° secolo. Non è spettacolare, cioè non tende ad accentuare le sue parti, né al contrario si può dire che si tratti di un museo “neutro”, senza carattere.

In pubblicità si dice che, per ogni prodotto, affinchè abbia una certa redditività sul mercato, bisogna trovare un’unica, forte argomentazione di vendita, e a meno che, nel corso degli anni, tale argomentazione si logori, essa va conservata fino a che il ciclo di vita del prodotto non si esaurisce, cosa che può anche non accadere…
Ci sono dei buoni motivi per prendere un buon cappuccino al bar invece che farlo a casa: il fatto di esser servito, il fatto che al bar il cappuccino può essere più buono, il fatto di incontrare qualcuno che si conosce, ma soprattutto il fatto che il cappuccino del bar ha quella schiuma morbida che solo al bar viene così bene: se dovessi promuovere l’immagine del “bar”, farei leva sulla schiuma, cioè su quel valore aggiunto che solo al bar puoi trovare.
Ma se si trattasse di promuovere l’idea di museo su cosa si potrebbe puntare? Qual è il valore aggiunto del museo che solo al museo si può trovare? Facile, l’arricchimento spirituale. Già, ma come si fa a promuovere un’idea di arricchimento spirituale? Non so. Bisogna fare il giro largo.
A me sembra che, il motivo per il quale alcune persone non frequentano musei, è dato da un’idea di inospitalità e di severità che il museo tende a comunicare; ovviamente non mi riferisco ai musei d’arte contemporanea, alcuni dei quali sono fin troppo accoglienti, ma ai musei più antichi, i quali invece risentono di una formalità visiva data dalla stessa architettura, che ha spesso ampie scalinate prima di giungere all’entrata del museo, grandi colonnati e porte altissime: in questo caso, per ristabilire una certa “amichevolezza” dell’apparato, o si fa in modo di recuperare un ordine sacro ma laico, oppure si fa in modo di farlo giocare col suo sé; farlo prendere un po’ in giro, farlo apparire meno serio di quello che è; bisogna essere un po’ birbanti, in un certo senso dissacrarsi, come fa da sempre l’arte con se stessa, e come il museo invece non fa mai.