Il rito e l’iniziazione:
Il passaggio da una stadio all’altro di una “condizione cognitiva”
deve dare segnali forti al momento del passaggio, confini ben netti: quando
si passa da un luogo ad un altro, la percezione che si ha del cambio di
“scenario” sarà tanto più forte quanto più
forte sarà stato l’input che ce ne ha segnalato il verificarsi.
Il rito ha quindi, in senso laico, una funzione piuttosto specifica: serve
a passare da una condizione psicologica ad un’altra in modo da trovarsi
immediatamente a proprio agio nella nuova condizione.
Questo passaggio può essere prolungato o velocissimo, doloroso
o benefico, educativo o scherzoso, ma anche tumultuoso e, se necessario,
violento: <<La parte più importante di molti riti della pubertà
e di iniziazione è quella della morte e della resurrezione simboliche,
quella in cui si cambia nome. Si muore col nome che si aveva fino a quel
momento e si risorge con una nuova identità…
Vi sono alcune opere d’arte che raffigurano i riti d’iniziazione
tra gli indiani Mandan. I giovani venivano appesi al soffitto tramite
chiodi confitti nel petto e venivano fatti ruotare finchè non perdevano
conoscenza…
In un rito degli Ona della Terra del fuoco, il ragazzo sta nella casa
degli uomini, dove ci sono figure mascherate che lui crede divinità
e potenze castigatrici. Una di queste avanza e ingaggia con lui una lotta.
L’uomo contro il quale il ragazzo lotta ha dapprima la meglio, ma
poi cede. Lascia che il ragazzo vinca e gli strappi la maschera. La maschera,
dunque, non è considerata solo una finzione. Viene conquistata
e venerata, in quanto rappresenta sia il confine sia il potere unificante
della società. Il ragazzo indossa la maschera e ora lui stesso
è quel potere. Ciò che incuteva timore è ora avallato>>.
In un sistema come quello occidentale a fattori di questo tipo si dà
sempre meno importanza, (il valore del cosiddetto “servizio militare”
è sottostimato) eppure, proprio perché “scioccanti”,
tali eventi simbolici, rappresentano un concetto chiave di quel modo di
pensare tutto orientale (basato sul maggiore sviluppo dell’emisfero
destro del cervello) che mi sembra ben rappresentato da una frase di Lao
Zen Scin:<<Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del
mondo chiama farfalla>>.
Ascensore 001- Tiziano Lucci-pittura digitale- stampa digitale su PVC
telato- cm 150 x 100
(o meglio la fase ultima del bruco prima di uscire dal bozzolo-ascensore)
Si tratta di un momento, niente di più; ma quello che c’è
lì dentro non è enumerabile temporalmente, perché
il valore che si crea e si distrugge in quell’attimo è di
numero infinito.
In occidente il concetto di morte ha quasi valore terrorizzante, è
il momento di massima sofferenza; Cristo è morto sulla croce per
salvarci; in Oriente non si nega la sofferenza di quel mentre, ma questo
è vissuto come momento di passaggio da uno stato all’altro
del divenire delle cose, ed è quindi parte di un mondo di cose
di cui l’uomo è a sua volta parte minima e condizione passeggera.
Un orientale non avrebbe mai potuto concepire il concetto di superuomo…
L’ideale è nel mezzo, si sa, ma è normale che, affinché
due bolle (quella occidentale e quella orientale) si travasino l’una
nell’altra, in qualche punto, il confine che le separa si deve prima
assottigliare e poi rompere; il punto di rottura stavolta sembra sia stato
il crollo delle due torri: le due più grandi “figure”
create dall’uomo. Adesso la nuova bolla avrà bisogno di una
serie di riassestamenti per equilibrare il nuovo sistema appena creatosi…
ma questa è un’altra “storia”…
Dicevamo del rito laico, del concetto di passaggio da una condizione ad
un’altra e dello sfruttamento di questo concetto ai fini di un miglioramento
del sistema museo; alcuni esempi: c’è un negozio qui a Roma
che ha adottato una fantastica trovata: il negozio vende cioccolata e
dolciumi di ogni tipo, non ha prodotti preconfezionati e adotta una politica
flessibile sia nella produzione che nella confezione, esibizione e concezione
dei prodotti: molti desideri dei clienti, se possibile, vengono esauditi
proprio perché considerati nuovi stimoli; quando si entra nel negozio
la porta non è aperta, bisogna suonare, non il campanello, ma una
campana vera e propria che si trova in alto a destra e che l’occhio
non trova subito. Si suona la campana, e il proprietario apre la porta:
quando si entra, pur trattandosi di un’attività commerciale,
si ha l’impressione di trovarsi in uno spazio davvero accogliente
dove tutto è curato ma un po’ fuori del tempo.
…Quando si entra in chiesa, ne parlo qui in modo laico, la percezione
di cambiamento di spazio verrebbe meno se al momento dell’entrata
non si passasse per un porta piccola, se non si facesse il segno della
croce e infine se non si bagnasse la fronte con dell’Acqua Santa
la quale si trova proprio dietro la porta. Questi segni, dalla campanella
fuori da un negozio all’acqua santa nella chiesa hanno la funzione
laica di avvertire dell’imminente cambio di condizione mentale.
Un anno e mezzo fa, si è tenuta a Londra “Apocalipse”:
le opere, molte di artisti del gruppo Saatchi (un mecenate inglese), erano
state allestite in modo che ogni artista avesse uno spazio inequivocabilmente
suo, uno spazio quindi tematico; il tema stesso della mostra era indicativo
dei argomenti affrontati: un Papa schiacciato da un meteorite che aveva
spaccato il soffitto in vetro della Royal Academy(dell’italiano
Cattelan), un’intera stanza del museo in cui modellini di uomini
mutanti si compenetrano in ogni modo con nazisti sadomasochisti (degli
“inglesi” Chapman), un palloncino gigante dipinto con colori
vivacissimi e dei quadri così laccati, gelatinosi da venir voglia
di mangiarli (dello “statunitense” Koons, aimè il più
spensierato..); ma la cosa più interessante era come questo mix
psicologico un po’ grottesco veniva gestito: per entrare nella mostra
bisognava chinarsi fino a terra e passare per una porticina alta 50 cm,
davvero striminzita; poi si percorreva un ambiente pieno di “ostacoli”:
scalini sconnessi, mini ambienti in terra e micro labirinti mentali; si
veniva insomma risucchiati nella mostra; questo ha dato molta più
forza alle opere esposte per altro perfettamente collocate; da un punto
di vista commerciale, il bookshop (o merchandising-shop) del museo, ha
venduto tantissimo; tutti volevano un’icona da legare a quell’esperienza.
Nel tragitto che si compie per recarsi al museo, in generale, si è
storditi dal traffico, dai suoi rumori, dalla routine giornaliera e da
tutta una foschia psicologico-visiva di difficile gestione; se il museo
vuole che il fruitore entri sia intellettualmente che emotivamente lì
dentro, il museo gli dovrà dare la “scossa”.
Quando vado al Palazzo delle esposizioni, salite le scalinate, entro da
una porta a vetri enorme dietro la quale si cela uno spazio piuttosto
ristretto con 5 individui grigi e formali con uniforme blu, cartellino
bianco e aria affatto amichevole, fermi immobili sull’attenti, e
mi chiedo: ma a cosa servono? non è così che si da il benvenuto,
né tantomeno si può pensare di iniziare ad un rito pur laico,
come il museo di fatto è, il fruitore- -cliente-potenziale devoto.
Così, le mostre come quella di Dalì a Roma, sono, in un
certo senso, mostre “ospitali” perché anticipano fuori
(con l’esposizione di sculture sul pavimento stradale) quello che
avverrà dentro la mostra; questo modo di agire è anche uno
tra i migliori manifesti pubblicitari: è comunque l’“assaggio”
di una buona torta e serve anche a far parlare di sé.
Vorrei aggiungere una parola anche sull’illuminazione delle opere
d’arte all’interno del museo e non essendo un esperto mi limito
a dare un giudizio soggettivo: mi sembra che ci siano opere che necessitano
di gran luce perché quello che esprimono ne ha bisogno. Invece
ve ne sono altre contro cui la luce sembra rimbalzare; quasi come se non
la volessero affatto; è difficile per me dire da che dipenda e
se è più un mio pallino o una questione di reale importanza,
però l’uso della luce non dovrebbe essere sempre uniforme
(seppur direzionato) a meno che le opere in mostra non abbiano esse stesse
un’uniformità strutturale comune(il che è molto difficile).
Vi sono cose (opere in questo caso) che richiedono di rimanere un po’
sullo sfondo, necessitano di un alone di mistero, altre invece chiedono
di venire più avanti, di brillare.
In questo la luce è essenziale.
In fin dei conti tutto comincia con la luce, compreso un sistema intelligente.
|