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Un sistema intelligente:

19/10/2002 9362 lettori
3 minuti

Il rito e l’iniziazione:


Il passaggio da una stadio all’altro di una “condizione cognitiva” deve dare segnali forti al momento del passaggio, confini ben netti: quando si passa da un luogo ad un altro, la percezione che si ha del cambio di “scenario” sarà tanto più forte quanto più forte sarà stato l’input che ce ne ha segnalato il verificarsi.
Il rito ha quindi, in senso laico, una funzione piuttosto specifica: serve a passare da una condizione psicologica ad un’altra in modo da trovarsi immediatamente a proprio agio nella nuova condizione.
Questo passaggio può essere prolungato o velocissimo, doloroso o benefico, educativo o scherzoso, ma anche tumultuoso e, se necessario, violento: <<La parte più importante di molti riti della pubertà e di iniziazione è quella della morte e della resurrezione simboliche, quella in cui si cambia nome. Si muore col nome che si aveva fino a quel momento e si risorge con una nuova identità…
Vi sono alcune opere d’arte che raffigurano i riti d’iniziazione tra gli indiani Mandan. I giovani venivano appesi al soffitto tramite chiodi confitti nel petto e venivano fatti ruotare finchè non perdevano conoscenza…
In un rito degli Ona della Terra del fuoco, il ragazzo sta nella casa degli uomini, dove ci sono figure mascherate che lui crede divinità e potenze castigatrici. Una di queste avanza e ingaggia con lui una lotta. L’uomo contro il quale il ragazzo lotta ha dapprima la meglio, ma poi cede. Lascia che il ragazzo vinca e gli strappi la maschera. La maschera, dunque, non è considerata solo una finzione. Viene conquistata e venerata, in quanto rappresenta sia il confine sia il potere unificante della società. Il ragazzo indossa la maschera e ora lui stesso è quel potere. Ciò che incuteva timore è ora avallato>>.
In un sistema come quello occidentale a fattori di questo tipo si dà sempre meno importanza, (il valore del cosiddetto “servizio militare” è sottostimato) eppure, proprio perché “scioccanti”, tali eventi simbolici, rappresentano un concetto chiave di quel modo di pensare tutto orientale (basato sul maggiore sviluppo dell’emisfero destro del cervello) che mi sembra ben rappresentato da una frase di Lao Zen Scin:<<Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla>>.

Ascensore 001- Tiziano Lucci-pittura digitale- stampa digitale su PVC telato- cm 150 x 100
(o meglio la fase ultima del bruco prima di uscire dal bozzolo-ascensore)


Si tratta di un momento, niente di più; ma quello che c’è lì dentro non è enumerabile temporalmente, perché il valore che si crea e si distrugge in quell’attimo è di numero infinito.
In occidente il concetto di morte ha quasi valore terrorizzante, è il momento di massima sofferenza; Cristo è morto sulla croce per salvarci; in Oriente non si nega la sofferenza di quel mentre, ma questo è vissuto come momento di passaggio da uno stato all’altro del divenire delle cose, ed è quindi parte di un mondo di cose di cui l’uomo è a sua volta parte minima e condizione passeggera.
Un orientale non avrebbe mai potuto concepire il concetto di superuomo…
L’ideale è nel mezzo, si sa, ma è normale che, affinché due bolle (quella occidentale e quella orientale) si travasino l’una nell’altra, in qualche punto, il confine che le separa si deve prima assottigliare e poi rompere; il punto di rottura stavolta sembra sia stato il crollo delle due torri: le due più grandi “figure” create dall’uomo. Adesso la nuova bolla avrà bisogno di una serie di riassestamenti per equilibrare il nuovo sistema appena creatosi… ma questa è un’altra “storia”…
Dicevamo del rito laico, del concetto di passaggio da una condizione ad un’altra e dello sfruttamento di questo concetto ai fini di un miglioramento del sistema museo; alcuni esempi: c’è un negozio qui a Roma che ha adottato una fantastica trovata: il negozio vende cioccolata e dolciumi di ogni tipo, non ha prodotti preconfezionati e adotta una politica flessibile sia nella produzione che nella confezione, esibizione e concezione dei prodotti: molti desideri dei clienti, se possibile, vengono esauditi proprio perché considerati nuovi stimoli; quando si entra nel negozio la porta non è aperta, bisogna suonare, non il campanello, ma una campana vera e propria che si trova in alto a destra e che l’occhio non trova subito. Si suona la campana, e il proprietario apre la porta: quando si entra, pur trattandosi di un’attività commerciale, si ha l’impressione di trovarsi in uno spazio davvero accogliente dove tutto è curato ma un po’ fuori del tempo.
…Quando si entra in chiesa, ne parlo qui in modo laico, la percezione di cambiamento di spazio verrebbe meno se al momento dell’entrata non si passasse per un porta piccola, se non si facesse il segno della croce e infine se non si bagnasse la fronte con dell’Acqua Santa la quale si trova proprio dietro la porta. Questi segni, dalla campanella fuori da un negozio all’acqua santa nella chiesa hanno la funzione laica di avvertire dell’imminente cambio di condizione mentale.
Un anno e mezzo fa, si è tenuta a Londra “Apocalipse”: le opere, molte di artisti del gruppo Saatchi (un mecenate inglese), erano state allestite in modo che ogni artista avesse uno spazio inequivocabilmente suo, uno spazio quindi tematico; il tema stesso della mostra era indicativo dei argomenti affrontati: un Papa schiacciato da un meteorite che aveva spaccato il soffitto in vetro della Royal Academy(dell’italiano Cattelan), un’intera stanza del museo in cui modellini di uomini mutanti si compenetrano in ogni modo con nazisti sadomasochisti (degli “inglesi” Chapman), un palloncino gigante dipinto con colori vivacissimi e dei quadri così laccati, gelatinosi da venir voglia di mangiarli (dello “statunitense” Koons, aimè il più spensierato..); ma la cosa più interessante era come questo mix psicologico un po’ grottesco veniva gestito: per entrare nella mostra bisognava chinarsi fino a terra e passare per una porticina alta 50 cm, davvero striminzita; poi si percorreva un ambiente pieno di “ostacoli”: scalini sconnessi, mini ambienti in terra e micro labirinti mentali; si veniva insomma risucchiati nella mostra; questo ha dato molta più forza alle opere esposte per altro perfettamente collocate; da un punto di vista commerciale, il bookshop (o merchandising-shop) del museo, ha venduto tantissimo; tutti volevano un’icona da legare a quell’esperienza.
Nel tragitto che si compie per recarsi al museo, in generale, si è storditi dal traffico, dai suoi rumori, dalla routine giornaliera e da tutta una foschia psicologico-visiva di difficile gestione; se il museo vuole che il fruitore entri sia intellettualmente che emotivamente lì dentro, il museo gli dovrà dare la “scossa”.
Quando vado al Palazzo delle esposizioni, salite le scalinate, entro da una porta a vetri enorme dietro la quale si cela uno spazio piuttosto ristretto con 5 individui grigi e formali con uniforme blu, cartellino bianco e aria affatto amichevole, fermi immobili sull’attenti, e mi chiedo: ma a cosa servono? non è così che si da il benvenuto, né tantomeno si può pensare di iniziare ad un rito pur laico, come il museo di fatto è, il fruitore- -cliente-potenziale devoto.
Così, le mostre come quella di Dalì a Roma, sono, in un certo senso, mostre “ospitali” perché anticipano fuori (con l’esposizione di sculture sul pavimento stradale) quello che avverrà dentro la mostra; questo modo di agire è anche uno tra i migliori manifesti pubblicitari: è comunque l’“assaggio” di una buona torta e serve anche a far parlare di sé.
Vorrei aggiungere una parola anche sull’illuminazione delle opere d’arte all’interno del museo e non essendo un esperto mi limito a dare un giudizio soggettivo: mi sembra che ci siano opere che necessitano di gran luce perché quello che esprimono ne ha bisogno. Invece ve ne sono altre contro cui la luce sembra rimbalzare; quasi come se non la volessero affatto; è difficile per me dire da che dipenda e se è più un mio pallino o una questione di reale importanza, però l’uso della luce non dovrebbe essere sempre uniforme (seppur direzionato) a meno che le opere in mostra non abbiano esse stesse un’uniformità strutturale comune(il che è molto difficile).
Vi sono cose (opere in questo caso) che richiedono di rimanere un po’ sullo sfondo, necessitano di un alone di mistero, altre invece chiedono di venire più avanti, di brillare.
In questo la luce è essenziale.
In fin dei conti tutto comincia con la luce, compreso un sistema intelligente.