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Pubblicità e bambini

17/03/2005 15144 lettori
5 minuti

Il marketing per bambini è diventato, negli Stati Uniti in particolare ma ormai anche nel nostro paese, un business plurimiliardario.

Ci sono centinaia di aziende che non fanno altro che studiare o comunicare ai più giovani. Infatti, non solo i bambini sono cambiati, ma è mutato soprattutto il loro potere d’acquisto e il loro ruolo all’interno del nucleo familiare. Non si accontentano più di una cosa sola ma le vogliono tutte e hanno molte più possibilità, economiche e psicologiche, per ottenerle.

All’interno dell’odierno contesto del consumo il bambino viene spesso sfruttato mediaticamente. Un abuso d’immagine derivante da un’innata reazione psico-emotiva dell’adulto nei confronti del cucciolo. Ma vi è anche una porzione di comunicazione che viene destinata espressamente al pubblico dei più piccoli. Tra gli effetti negativi di quest’ultima il fenomeno che gli americani chiamano “pestering”, durante il quale il bambino pesta letteralmente i piedi per ottenere ciò che vuole, che i genitori trovano sempre maggiori difficoltà a gestire.

Come dovrebbe essere la comunicazione rivolta ai bambini? Certo, si potrebbe sperare, più colma d’intelligenza intesa come capacità di legarsi ai loro valori più veri e di infondere senso critico. Secondo Patrizia Boglione – vice presidente ADCI – degli input corretti dovrebbero essere forniti al mondo della pubblicità dal sistema educativo, sia esso familiare che scolastico.

La questione diventa ancora più delicata se c’è anche chi prevede un futuro con un numero ristretto di grandissime marche presenti in settori merceologici assai diversi tra loro. A quel punto scopo fondamentale del brand sarà far crescere e seguire l’evoluzione del proprio target. Avremo probabilmente giovani-vecchi e vecchi-giovani. Uno scambio di ruoli che al contrario delle uova dell’imminente Pasqua, potrebbe riservare, soprattutto per i più piccoli, qualche brutta sorpresa.

Il marketing per bambini è diventato, negli Stati Uniti in particolare ma ormai anche nel nostro paese, un business plurimiliardario.

 

Ci sono centinaia di aziende che non fanno altro che studiare o comunicare ai più giovani. I

nfatti, non solo i bambini sono cambiati, ma è mutato soprattutto il loro potere d’acquisto e il loro ruolo all’interno del nucleo familiare. Non si accontentano più di una cosa sola ma le vogliono tutte e hanno molte più possibilità, economiche e psicologiche, per ottenerle.

 

All’interno dell’odierno contesto del consumo il bambino viene spesso sfruttato mediaticamente.

Un abuso d’immagine derivante da un’innata reazione psico-emotiva dell’adulto nei confronti del cucciolo. Ma vi è anche una parte di comunicazione che viene destinata espressamente al pubblico dei più piccoli.

 

Tra gli effetti negativi di quest’ultima il fenomeno che gli americani chiamano “pestering”, durante il quale il bambino pesta letteralmente i piedi per ottenere ciò che vuole, che i genitori trovano sempre maggiori difficoltà a gestire.

 

Come dovrebbe essere la comunicazione rivolta ai bambini? Certo si potrebbe sperare più colma d’intelligenza intesa come capacità di legarsi ai loro valori più veri e di infondere senso critico.

Secondo Patrizia Boglione – vice presidente ADCI – degli input corretti dovrebbero essere forniti al mondo della pubblicità dal sistema educativo, sia esso familiare che scolastico.

 

La questione diventa ancora più delicata se c’è anche chi prevede un futuro con un numero ristretto di grandissime marche presenti in settori merceologici assai diversi tra loro.

A quel punto scopo fondamentale del brand sarà far crescere e seguire l’evoluzione del proprio target. Avremo probabilmente giovani-vecchi e vecchi-giovani.

 

Uno scambio di ruoli che al contrario delle uova dell’imminente Pasqua potrebbe riservare, soprattutto per i più piccoli, qualche brutta sorpresa.