The Jacket
Guerra del Golfo 1991: il tenente americano Jack Starks (Adrien Brody, premio Oscar per “Il Pianista”) viene congedato dopo essere stato gravemente ferito alla testa durante una missione. Sta ritornando a casa, quando rimane coinvolto in una sparatoria ed è accusato ingiustamente della morte di un agente di polizia. Purtroppo le amnesie di cui soffre in seguito ai traumi di guerra, gli impediscono di ricordare la dinamica dell’omicidio, così al processo è condannato alla reclusione in un manicomio criminale. Le sue disavventure non sono che all’inizio, infatti viene affidato alle cure sperimentali del dottor Baker, che spera di calmare gli istinti violenti dei suoi pazienti con un cocktail di psicofarmaci, camicie di forza e transitorie tumulazioni nei loculi dell’obitorio della clinica. Ma questa bizzarra terapia ha effetti imprevisti su Jack Starks, le cui allucinazioni diventano talmente realistiche da proiettarlo temporaneamente nel futuro. Ed è proprio durante uno di questi suoi viaggi visionari che incontra la bella e fragile Jackie (Keira Knightley, splendida interprete di numerosi film tra cui i recenti “King Arthur”e “Love Actually”), per amore della quale riuscirà a salvarsi sfidando le regole stesse del destino.
“The Jacket” non è soltanto un racconto di fantascienza, è un film dalle atmosfere forti, tutte invariabilmente claustrofobiche e ben riuscite, che come un filo rosso ci guidano dall’iniziale descrizione degli orrori della guerra verso la presa di coscienza della brutalità e della disperazione che si nascondono anche nella pace. Infatti una volta a casa, il tenente Starks incontra sulla sua strada un’umanità violenta e incapace di pietà, oppure vittima della propria fragilità e alla deriva esistenziale, ma sempre ugualmente incapace di dialogo e di vera attenzione agli altri. Non a caso, alla fine è tramite una lettera che il protagonista riesce a cambiare il corso del destino abbattendo finalmente il muro dell’isolamento e dell’incomunicabilità. La vita, così come ci viene rappresentata dal regista, l’inglese John Maybury, è minacciosa e beffarda - come la morte d’altra parte, che nel film sopraggiunge sempre improvvisa e ben poco gloriosa anzi irriverente - e può essere aggirata solo grazie all’amore e alla reciproca solidarietà tra le persone.
Purtroppo, mentre montaggio e regia non conoscono cedimenti e accompagnano con disinvoltura Adrien Brody lungo le sue scorribande temporali, la macchina narrativa invece ogni tanto s’inceppa. Eppure sarebbe bastato poco per dare alla storia la consistenza che le manca. Sarebbe bastata ad esempio qualche parola in più per spiegare com’è che il protagonista ha la capacità di viaggiare nel tempo (merito della cura? Perché allora agli altri pazienti non fa lo stesso effetto?). Certo, il mistero e l’imprevedibilità che caratterizzano il destino del protagonista hanno lo scopo di trasmettere allo spettatore la sensazione di una realtà opprimente che si sottrae con ostinazione ai tentativi degli uomini di codificarla e di controllarla. Questo tuttavia non basta ad evitare di farci uscire dal cinema con l’impressione che forse gli autori abbiano involontariamente eliminato qualche scena essenziale.
Così, alla fine il dottor Baker ci appare superficiale e poco credibile nella sua cieca fedeltà, non motivata ma presentata come dato di fatto, alla stravagante terapia del loculo, mentre percepiamo come una vera e propria lacuna nella trama la vicenda dell’infermiere, che da carnefice diventa vittima, così, senza che niente di più ci venga raccontato.
Un vero peccato perché le idee nella sceneggiatura si intravedono, ma allo stato larvale come se non avessero avuto abbastanza tempo per crescere, un difetto comune a troppi film ultimamente. Peccato soprattutto perché le carenze narrative scavano il vuoto attorno alla intensa prova recitativa di Adrien Brody, che con la sua espressività rende profondamente umano e credibile un personaggio che molto più facilmente sarebbe potuto risultare sopra le righe.