Radio 1 Rai: Pupi Avati al ComuniCattivo di Igor Righetti
Comunica
Radio 1 Rai: Pupi Avati al ComuniCattivo di Igor Righetti (venerdì 25 novembre alle 15.35 Radio 1 Rai)
Venerdì 25 novembre alle 15.35 su Radio 1 Rai il regista Pupi Avati sarà l’ospite del “Confessionale del ComuniCattivo”, laboratorio dei linguaggi della comunicazione ideato e condotto dal giornalista-massmediologo Igor Righetti.
“Sono il presidente degli sfigati”
“La tv attuale è responsabile del degrado del Paese”
“Il 5 dicembre comincerò a girare il film ‘La cena per farvi conoscere’ con Diego Abatantuono, Vanessa Incontrada, Ines Sastre, Violante Placido e Francesca Neri”
“Mi piace il punto di vista dello sconfitto perché è più ricco di informazioni”; “Siamo quello che vogliamo essere, il destino ce lo facciamo da soli”; “Deve preoccupare la tv indecente seguita da milioni di persone”; “In questi ultimi tempi il mio rapporto con la televisione è terrificante, la vedo come responsabile, molto più della politica, del degrado del Paese”; “La politica italiana è finalizzata al potere personale”.
Domani (venerdì 25 novembre) alle 15.35 su Radio 1 Rai Pupi Avati, sarà l’ospite del “Confessionale del ComuniCattivo”, laboratorio dei linguaggi della comunicazione ideato e condotto da Igor Righetti.
Ecco un estratto dell’intervista
Il tuo ultimo film “La seconda notte di nozze” sta avendo molto successo tanto da superare nelle sale il film di Benigni. Qual è l’alchimia che determina il successo?
Se la conoscessi probabilmente, avendo realizzato più di trenta film, sarebbero tutti grandi successi come questo. Fortunatamente non la si conosce, fortunatamente la si viene ad apprendere solamente a film fatto. Quando il film è nelle sale, via via gli spettatori ti comunicano la loro gratitudine per le emozioni che il film ha dato loro. Io credo che dipenda molto da una miscela che è molto difficile da mettere insieme che è di riso, sorriso, divertimento, di struggimento e commozione. Mettere insieme, rendere contigua la risata alla commozione significa in qualche modo essere vicini a quella che è la vita, l’esistere. Perché il nostro esistere è un insieme di commozione e divertimento. In ognuno di noi c’è un momento di depressione che fa seguito a un momento di eccitazione. E riuscire a riprodurre questo tipo di mix è una cosa molto italiana. Io cito sempre la commedia all’italiana, Germi, De Sica, questi grandi. Erano così puntuali nel saperla riproporre. Io forse penso che “La seconda notte di nozze” abbia questa qualità.
Il film è stato tratto da un romanzo di cui sei l’autore. Dove prendi l’ispirazione per queste storie di varia umanità?
Il punto di partenza è sempre di carattere autobiografico: in questo caso la vicenda di mia madre giovane vedova piacente agli inizi degli Anni Cinquanta che su suggerimento delle amiche dovrebbe in qualche modo trovare un sostituto al nostro papà che se ne è andato per sempre. E quindi venivano organizzati per lei appuntamenti con dei candidati alla successione di mio padre. E lei che era una donna pudica, timida e prudente si portava sempre a questi appuntamenti me come una sorta di salvagente. In modo che nel momento del pericolo, della troppa euforia del candidato, lei aveva attraverso il bambino una via di fuga. Fortunatamente lei non trovò mai un sostituto al mio papà però l’idea di una madre e di un figlio in giro per la città alla ricerca di un secondo marito, mi ha dato l’idea di partenza. Che poi naturalmente per chi conosce il romanzo o per chi ha visto il film è diventata ben altro: una storia ambientata nel dopoguerra, in cui la madre interpretata da Katia Ricciarelli è una donna molto più problematica, forse moralmente meno rispettosa dei dettami ai quali obbediva mia madre. Il figlio, interpretato da Neri Marcorè è diventato davvero un idiota, di una disonestà assoluta. E soprattutto il candidato al matrimonio, Antonio Albanese che qui secondo me dà una dimostrazione straordinaria di capacità interpretativa, è una specie di ebete del villaggio che però alla fine si dimostra il più saggio di tutti.
Il coinvolgimento emotivo derivato dalla lettura di un libro in che modo è diverso da quello suscitato dalle immagini cinematografiche?
Io penso che la lettura legittimi in qualche modo, chi legge, il fruitore, a ricorrere a quello che è il suo mondo archetipale. Cioè se uno legge il sostantivo cavallo evoca un cavallo che è magari il cavallo che lui ha visto da bambino. E così per ogni cosa. Il ragazzo bello che entra nell’appartamento è il ragazzo dei sogni di qualunque ragazza e così via. Quindi la lettura rende molto più libera la creatività del lettore mentre invece nel film tutta la parte visiva è totalmente risolta. È per quello che accade che andando a vedere il film, dopo aver letto il romanzo, proviamo una sorta di delusione. C’è uno scollamento tra quello che abbiamo immaginato e quello che il regista ci propone. Nel mio caso credo sia uno scollamento molto relativo perché ho avuto una fortuna straordinaria nel trovare in questi interpreti, compresi Marisa Merlini e Angela Luce che non ho citato prima, un’aderenza così assoluta a quello che io pensavo e alle facce che immaginavo quando ho scritto questo romanzo, per cui c’è un rischio minimo.
Nello scegliere come protagonista del tuo film Katia Ricciarelli, alla sua prima esperienza cinematografica, hai rischiato. Ma quanto è importante per te la sfida?
La sfida è la vita, chi fa questo mestiere attraverso le vie della rassicurazione, cioè replicando e riportando in modo pigro delle combinazioni che risultano già vincenti sia a livello di cast sia di percorsi narrativi, hanno un modo di fare cinema che non riesco ad apprezzare. Il nostro modo di fare cinema è quello che va sempre alla ricerca di qualcosa al di fuori del consolidato. Quando abbiamo proposto per la prima volta il nome di Katia è evidente che abbiamo suscitato scandalo, preoccupazione, paura, diffidenza da parte dei nostri compagni di viaggio. Penso a Diego Abatantuono con “Regalo di Natale”, all’ostilità che suscitammo quando lo proponemmo e al risultato straordinario che invece poi Diego ebbe.
Le storie che racconti sono spesso velate dalla malinconia. Sei un uomo triste?
In quest’ultimo caso c’è molto divertimento e un fondo legato alla consapevolezza che la felicità poi nella vita non esiste. Però è bello che la si persegua, si viva nella convinzione che la si possa raggiungere in qualche modo. È in questa contraddizione che io vivo e credo di essere un fedele testimone di quello che è il vivere di chiunque di noi.
Com’è il tuo rapporto con la televisione?
In questi ultimi tempi è terrificante. Nel senso che la vedo come responsabile, molto più della politica, del degrado del Paese. Io credo che se gli esseri umani siano peggiorati nei decenni lo dobbiamo moltissimo a questa proposta televisiva che incanta decine di milioni di persone ogni sera. Ed è davvero doloroso e preoccupante che questi programmi indecenti siano al centro dell’attenzione di milioni di persone. Dice una cosa molto sensata Luciano De Crescenzo quando afferma che se un programma supera i quattro milioni di ascolto deve preoccupare chi lo fa. Perché si entra in rapporto con una moltitudine talmente misteriosa che è degradata. Invece purtroppo i media non fanno altro che esaltare gli ascolti, come se il numero degli ascoltatori fosse veramente sinonimo di qualità, quando sappiamo benissimo che è il contrario.
I protagonisti televisivi, anche se incapaci di qualche cosa, diventano subito popolari. È la fine della meritocrazia?
Diventano popolari per delle stagioni molto brevi, poi verificati sul campo quando si chiede loro di fare qualche cosa si capisce subito che non sanno fare nulla. Non è sufficiente aver partecipato o vinto “Il grande fratello” per diventare un attore. Sì, ti potranno far fare uno sceneggiato ma la durata è breve. Hanno una data di scadenza molto ravvicinata.
Il tuo ultimo film ha appena cominciato a raccogliere consensi e tu già ti stai per accingere a girarne un altro. Ma allora non sei d’accordo con chi, come Dario Argento e Ornella Muti afferma che il cinema italiano è in coma.
Il cinema italiano può essere visto secondo me soltanto in modo soggettivo. Io ho fatto il presidente di Cinecittà per oltre due anni quindi ho avuto la possibilità di vedere il cinema italiano da un osservatorio del tutto peculiare. Mi sono accorto che ci sono delle realtà indipendenti che funzionano come dei piccoli trenin, e pur con difficoltà continuano a mettere in piedi film. Poi ci sono quelli che invece si piangono addosso e hanno in un modo un po’ cronico questo senso del disastro. È vero che stiamo attraversando un momento molto difficile non posso negarlo. Quando sono arrivato a Roma nel 1968 i film che si facevano erano 365, un film al giorno. Oggi se ne fanno a mala pena quaranta, credo, e non tutti di prima qualità. Io ho un sacco di colleghi che sono disoccupati, però ho anche un sacco di colleghi che ho la sensazione non vogliano lavorare. Perché molti dei miei colleghi che hanno un buon box office, che sono considerati, stentano a trovare la storia. Pigrizia mentale?Non lo so forse quest’idea che l’autore, l’artista debba anche in qualche modo pensare molto a se stesso. E poi vedo che ogni quattro, cinque anni, quando esce un nuovo film non sembra un capolavoro. Allora mi chiedo questi anni a che cosa sono serviti? Ad arrugginire un rapporto più che a oliare una macchina. Mentre se noi ci guardiamo un po’ indietro ai nostri padri e a come operavano troviamo uno come Monicelli che ha fatto ottantacinque film nella sua vita. Così Comencini, Lattuada, era gente che faceva almeno un film all’anno. E molto spesso hanno fatto dei film che sono rimasti nella storia del cinema.
Ti fregi di far parte del mondo degli sfigati…
Sì, sono il presidente.
Perché?
Perché mi piace moltissimo il punto di vista dello sconfitto, del soccombente. Mi sembra che chi guardi il mondo da parte di chi non ce l’ha fatta abbia il massimo dell’informazione. Io se devo farmi raccontare un evento preferisco la versione dello sconfitto a quella del vincitore perché lo sconfitto ha più dati. Ed essendo io, fin da ragazzino, uno che in qualche modo ha pagato attraverso dei limiti fisici, non sono un adone, non sono mai stato un grande sportivo, non sono mai stato ricco, ho avuto limiti che nelle città di provincia penalizzano notevolmente, questo limite me lo sono portato appresso come una sorta di bandiera. Attorno alla quale poi ci si è radunato un gruppuscolo di individui.
Credi nel destino?
No, credo che ci sia qualche cosa di più grande di noi che in qualche modo ci aiuti a realizzare quello che vogliamo realizzare. Io credo che noi siamo quello che vogliamo essere, credo che il nostro destino ce lo facciamo da soli. Ed è soprattutto il risultato di tutti i recuperi dopo le sconfitte. Le persone che non riescono a raggiungere questo tipo di risultato sono le persone per le quali è stata sufficiente una sconfitta per sentirsi legittimate ad alzare le mani e abbandonare la partita. Le persone che in genere riescono a trovare loro stesse attraverso quello che fanno sono le persone che sono riuscite a superare i momenti così difficili. Io credo che le sofferenze, le difficoltà siano molto formative. Nel momento in cui le vivi stai male, malissimo, ma in genere sono dei momenti di passaggio che ti fanno crescere. C’è un detto della cultura contadina che mia madre mi ripeteva sempre quando ero bambino: “Si chiude una porta, si apre un portone”.
Che cos’è l’amore per Pupi Avati?
È la cosa che tiene su tutto l’insieme. È l’amore per quello che fai, è il desiderio di essere amato di più dagli altri di quanto non sarebbe amata una persona che fa un mestiere normale. È l’amare anche un essere umano che ti vive accanto da quarantuno anni, come è il caso di mia moglie o dei miei figli. È la riconoscenza nei confronti della bellezza del mondo nel quale vivi, della bellezza della gente che incontri perché in genere è molto diffusa questa cultura negativa, pessimista, rassegnata, asfittica e il cinema italiano purtroppo ne è complice, in cui c’è continuamente una descrizione del mondo, della società, del presente sempre più deprimente. E oggi ci domandiamo perché i nostri figli o i nostri nipoti ricorrano a delle vie di fuga indecenti, mortali. Ma se noi continuiamo a mentire sul mondo? Perché è una menzogna quella di dire che il mondo è orrendo, non è vero che è orrendo. Ci sono delle persone orrende, ci sono delle minoranze orrende, c’è una forma di potere che molto spesso è orrenda. Ma la gente in genere è fantastica. Sono molte le persone straordinarie che hanno qualcosa di fantastico da dirti. Credo che ognuno di noi sia portatore di un talento soltanto che non è stato educato a cercarlo dentro se stesso. Io vado a fare gli incontri nelle università e racconto la differenza fra passione e talento, cercando proprio di spiegare quanto la ricerca del talento dentro se stessi, nella convinzione che ognuno di noi abbia una vocazione, sia davvero la chiave di volta di tutta un’esistenza.
Vieni spesso accusato di maschilismo. E’ vero, sei un maschilista?
Beh, io nasco da una cultura maschilista, non è colpa mia. Nel 1938 sono nato pensando che la cosa più importante di una donna fosse la bellezza. Poi adesso mi vogliono convincere che ci sono molte altre cose importanti in una donna. È vero la bellezza forse è l’ultima cosa che vale. Però io sono ancora molto legato al fatto estetico nei riguardi di una donna. Una donna carina mi piace di più, mi è già subito più simpatica di una donna brutta. Poi magari riesco ad avere delle collaboratrici o delle amiche non stupende, ma la ragazza era quella che quando si fidanzava con uno di noi perturbava il gruppo che si era venuto a consolidare. Io vengo da quella cultura lì.
Se dovessi dare una definizione di te come ti definiresti?
Io ho usato il titolo di questo film che ho fatto un po’ di tempo fa come il titolo in cui meglio e di più mi riconosco cioè “Un essere dal cuore altrove”. Io credo di avere perennemente il cuore altrove, anche in questo momento non sono totalmente qua, c’è sempre una parte di me che sta navigando, che sta esplorando, che sta partendo. Sono rimasto molto ragazzino malgrado i miei sessantasette anni e la mia pancia. Sono rimasto uno che ha ancora dentro di sé la sfrontatezza di avere un mondo molto legato all’immaginazione. Faccio convivere l’irreale con il reale, soprattutto utilizzo la ragionevolezza nei casi estremi proprio quando non se ne può fare a meno. Cerco di essere irragionevole il più possibile.
Qual è il tuo rapporto con il tempo?
È un rapporto che si fa sempre più difficile perché avverto che si accorcia, che si abbrevia. So che la parte più straordinaria della mia vita ce l’ho tutta alle spalle. Mi chiedevi perché faccio tanti film. Proprio per questo perché ho ancora tantissime storie da raccontare e non so se avrò il tempo sufficiente per farlo.
Che cosa pensi della politica italiana?
La politica italiana è una politica finalizzata al potere personale. Ma da parte di tutti, lo dico senza scandalizzarmi più di tanto. L’ho visto anche svolgendo quell’incarico a Cinecittà. Diffido un po’ del fatto che ci sia qualche politico che pensi veramente e autenticamente al bene del Paese. Sia al centro, sia a destra, sinistra, sopra, sotto. La politica ha anche bisogno di ottenere un certo consenso, di scendere a compromessi con molte cose. È una professione molto difficile per poter pretendere questo tipo di candore e di purezza. E quindi con la politica io veramente ho poco da spartire.
Progetti?
Comincerò un film il 5 dicembre che si intitola “La cena per farvi conoscere” che già un po’ racconta la storia. Perché una cena per far conoscere le persone che cos’è? È una cena finalizzata nei riguardi di qualcuno dei nostri amici, di qualcuno che è in crisi, solo, vedovo per fargli conoscere una signora, un’amica nostra che, a sua volta, è stata lasciata dal marito. Queste storie qua.
Gli attori?
Sono Diego Abatantuono, Vanessa Incontrada, Ines Sastre, Violante Placido e Francesca Neri.