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Match Point, una partita rischiosa

28/01/2006 16685 lettori
4 minuti

Uscito da poche settimane sugli schermi italiani, “Match Point” è l’ultima, acclamatissima fatica del regista Woody Allen. Una pellicola insolita, per lo stile cui il regista ci aveva abituato, ma soprattutto una sfida ambiziosa, dal momento che si misura con un indiscusso capolavoro della letteratura moderna, Delitto e Castigo (Fedor Dostoevskij, 1866), da cui il film è “liberamente tratto”.

Proprio questa indicazione è all’origine dei principali problemi interpretativi che sorgono alla visione del film, in quanto l’inevitabile raffronto che siamo portati a fare con il romanzo ci chiede ragione delle scelte del regista, del significato che egli ha voluto esprimere servendosi dei vari richiami e delle dissonanze con il costrutto letterario: non si può ignorare che un’opera come quella di Dostoevskij, che ha avuto un tale peso nella storia della letteratura, non possa aver costituito un semplice “spunto” per la produzione di un film, ma che probabilmente il regista si è servito di una “messa in risonanza” dei due testi per creare effetti di senso che emergono dal loro “dialogo”. E’ chiaro infatti, che ogni differenza rispetto al libro sarà generatrice di una domanda nello spettatore, un dubbio che sorge dal paragone con un’opera di tale valore da escludere la possibilità di una semplice “differenza stilistica”.

Un rapporto dialettico, quindi, che porrebbe i due discorsi su un piano di scambio semantico ben diverso da quello che lega un’opera alla sua “traduzione”, ed è proprio la specificazione “liberamente tratto” che complica di molto questa relazione.

Nel  formulare un personale parere estetico sulla riuscita o meno di un’opera d’arte, potremmo trovarci davanti ad un’”impressione”, una sensazione non meglio identificabile su ciò che abbiamo visto, che non sapremmo giustificare con esattezza. Spesso e volentieri attribuiamo questa ineffabilità del giudizio alla “sensibilità artistica” soggettiva, che non può essere tradotta a parole. In molti casi questo è vero, ma chi studia semiotica saprà che si può tentare di dare un’interpretazione più approfondita di un testo artistico, senza escludere la sensibilità ma integrandola in un esame più ragionato dell’oggetto del nostro interesse. E’ quello che ho tentato di fare servendomi di una semplice strumentazione semiotica per scoprire qualcosa di più su queste scelte del regista, e anche per valutare le mie opinioni “a caldo” sul film.

Un primo interrogativo è dato dalla scelta di collocare l’omicidio (unico episodio che abbia una certa aderenza esteriore al romanzo) alla fine del film, concentrandosi principalmente sugli eventi che sono scaturigine del tragico gesto. L’impianto del libro è esattamente opposto: riservando uno spazio molto ristretto a ciò che precede il Delitto, si snoda quasi interamente nelle tortuose vie  dell’incubo della colpa, fino a giungere all’ineluttabile epilogo, il Castigo del titolo. Altra nota fondamentale è che nel film invece il Castigo resta ambiguamente in sospeso, diviso tra il senso di colpa del protagonista e un fatale colpo di fortuna che lo scagiona completamente da ogni accusa ufficiale. Anche in questo dettaglio possiamo cogliere un rimando al romanzo, in cui Raskolnikov viene in effetti completamente scagionato dalla confessione di un innocente, e giunge alla confessione spontanea solo a motivo di un feroce senso di colpa.

Ora, possiamo chiederci la ragione di questo ribaltamento narrativo: nel film è solo accennato ciò che si svolgerà nel libro, mentre è descritto ciò che precede. Dunque il regista ha voluto creare una sorta di premessa alla storia di Dostoevskij, ha voluto legare le due storie tramite una sorta di continuità? Mi pare improbabile, dal momento che i moventi che portano all’omicidio sono diametralmente opposti. Si può ipotizzare allora che ciò che lega questi due personaggi sia il nichilismo che li contraddistingue, proposto da Allen in chiave moderna. L’esistenza vuota del protagonista, scandita dall’agiatezza e dal silenzio della menzogna, vince sul caotico mondo che fa da cornice alla parallela vicenda dei due amanti. Volendo dunque assumere che questa sia stata la determinazione dell’impianto narrativo del film, si può  a questo punto valutarne l’originalità e la raffinatezza, ovviamente secondo criteri soggettivi. Personalmente, ritengo che questo film non raggiunga assolutamente gli ambiziosi scopi che si era proposto nel cimentarsi con un mostro sacro della letteratura. Se è vero che la definizione “liberamente tratto” svincola in parte dall’obbligo di una certa fedeltà di traduzione, sono comunque del parere che non sottragga ad un confronto stilistico e contenutistico. L’imponente metafora creata da Dostoevskij, che rammenta la costruzione mitica di Levi Strauss (in cui il mito costituisce la mediazione tra due termini della condizione umana, in questo caso tra “peccato” e “salvezza” attraverso la redenzione) sembra usata per nobilitare una trama piuttosto banale, che strizza l’occhio al botteghino sia per quanto riguarda i contenuti, (vieta e ormai abusata la tematica del delitto passionale, seppur in questo caso possa dirsi ribaltata) e non è da meno anche nella sceneggiatura  in cui le frasi ad effetto si sprecano, toccando punte di cattivo gusto. La raffinatezza del romanzo, che stava nella rarefazione della trama a favore dell’impatto emotivo e del travaglio interiore che venivano così evidenziati si perde totalmente in un trionfo di materialismo, coronato dall’espediente desolante dei due fantasmi che appaiono al protagonista, per togliere ogni dubbio ad uno “spettatore-modello” ben poco acuto sulla consistenza del suo senso di colpa.

Naturalmente il mio, lungi  dall’essere un parere specialistico (sia in ambito cinematografico che semiotico!), vuole essere solo un modo di portare la semiotica fuori dai libri, proponendo una recensione ragionata secondo schemi meno superficiali di quelli che spesso guidano la nostra valutazione estetica, e anche un invito a proporre eventuali altri punti di vista sul film.