Carlo Verdone: "Nel cinema guardo sempre avanti"
È una delle leggende viventi della commedia italiana. Stiamo parlando di Carlo Verdone. Comunitazione lo ha incontrato, a margine della presentazione del suo ultimo film “Il mio miglior nemico” (scritto e interpretato con Silvio Muccino), per parlare di cinema, attualità e altro ancora.
In questo periodo si sta assistendo ad un revival della commedia italiana anni ’80. Diego Abatantuono, protagonista del sequel di “Eccezziunale veramente”, ha detto che ciò sta accadendo perché i film di oggi sono tristi. Tu cosa ne pensi?
«Non credo che il cinema d’oggi sia triste. Più semplicemente, è un termometro della realtà odierna. Per rendersi conto di questo clima, basta guardare la tv, che lo riflette appieno. Per quel che mi riguarda, nei miei film ho sempre cercato un po’ l’ironia. “Il mio miglior nemico” è una tragicommedia, lo considero uno dei miei film più riusciti: ci credo molto e mi è costato tanta fatica. C’è in esso un dialogo intergenerazionale, con un finale molto sereno, carico di un messaggio positivo che riguarda la generazione dei ventenni. Una generazione in cui io credo più di altre».
È la generazione a cui appartiene Silvio Muccino, il coprotagonista di questo film…
«Non mi sarei mai perdonato di fare male un film con un ragazzo che ha il suo potenziale. Sto vivendo un momento molto sereno della mia vita: questo mi aiuta a concentrarmi meglio, ho meno timori, e di conseguenza la mia recitazione è più sciolta. Inizialmente io e Silvio avevamo pensato di realizzare un film sul rapporto padre-figlio, ma il soggetto è stato scartato subito: troppo malinconico. Oggi il rapporto tra due generazioni è più complesso di un tempo, non è più alla “In viaggio con papà”, per intenderci. E così abbiamo preferito concentrarci su una storia diversa, dove io sono un top manager della ricca borghesia e lui un ragazzo un po’ sbandato che appartiene ad un ceto sociale basso. “Il mio miglior nemico” parla di questo giovane che mi distrugge la vita, ma nell’arco del film le cose cambiano e i due alla fine si ritrovano a dover collaborare fianco a fianco per raggiungere un obiettivo comune».
Per questo film hai parlato di una sorta di ping pong tra comico e drammatico…
«Ne “Il mio miglior nemico” ci sono momenti dove la parte drammatica è importante e forte, ma la trama si riscatta subito nella comicità. Sono contento che siamo riusciti a passare con agilità dal comico al drammatico e viceversa: non era facile farlo nella giusta maniera. Del resto, per questo film abbiamo lavorato molto sul soggetto e sulla sceneggiatura: 7 stesure, praticamente un anno e tre mesi dedicati interamente alla scrittura, e un copione di ben 130 scene».
Pensi che ti guarderai mai indietro realizzando ancora un film sullo stile di “Un sacco bello” e “Viaggi di nozze”?
«Non mi piace guardarmi indietro. Tuttavia, non escludo un’ultima galleria di mostri. Sicuramente, se domani dovessi rifare un film di quel tipo, mi identificherei con ciò che sono oggi, non metterei parrucche. In generale, guardo sempre avanti. Non vorrei sembrare presuntuoso, ma se ci rifletti sono stato sempre un po’ un precursore. Pensa a “Viaggi di nozze”, alla scena del pranzo, con tutti quei cellulari che squillano e quel frasario frantumato. Sotto un certo punto di vista, ho anticipato quello che succede oggi».
Cosa ti fa ridere dei politici di oggi? Gireresti mai un film su di loro?
«Dei politici di oggi non mi fa ridere nulla. Mi sembrano attori bravissimi, ma sempre uguali. Ti ricordi il finale di “Gallocedrone”? Molti politici attuali somigliano a quell’Armando Feroci che affabulava tutti. Spero che, chiunque vinca le elezioni, faccia le cose che ha promesso di fare. Per quel che mi riguarda, non mischierei mai la politica con il cinema».
I tuoi film hanno sempre avuto successo, ma qualcuno è andato meno bene degli altri. Cosa mi dici di “C’era un cinese in coma”?
«Quel film ha avuto poco successo perché non era comico, ma amaro. Ogni cambiamento provoca un contraccolpo nel pubblico che ti vorrebbe vedere sempre immutabile. Probabilmente non ci si aspettava un film del genere da me, ma certe cose bisogna provarle, anche se spiazzi la gente, perché ti servono per capire e per tracciare la direzione da seguire in futuro. Sotto questo punto di vista, quel film è stato una fortuna per me, e lo ritengo importante per il seguito che la mia carriera ha avuto: chi se ne frega se fece solo 5 miliardi! Tentativi come quelli di “C’era un cinese in coma” non sono gradini presi male: certo, poi bisogna dimostrare che queste esperienze ti sono servite».
Trovi difficoltà ad essere contemporaneamente attore e regista?
«Assolutamente no. Anzi, ho difficoltà quando non sono io a dirigere un film, perché provo fastidio se secondo me un attore sta recitando male e invece al regista va bene. In definitiva, essere contemporaneamente attore e regista non mi pesa: certo, è faticoso, ma alla fine ho la gestione del tutto. Non me la sento di sbagliare per colpa di un altro: voglio essere responsabile, nel bene e nel male, dei film che faccio. Non so se mi dedicherei solo alla regia: dipenderebbe da quello che mi offrirebbero. Se avessi davanti una storia che riguarda due diciottenni o due settantenni, mi limiterei a dirigere. Sicuramente il mio grande amore per la regia si deve a Sergio Leone, che ho avuto come maestro. Un preparatore atletico eccezionale: sono stato un mese a casa sua e mi ha insegnato tutto. Ad ogni modo, essendo questo il mio primo film con la Filmauro, credo che De Laurentiis (produttore esecutivo del film, n.d.r.) voglia sfruttarmi per un po’ anche come attore!».
Cosa ne pensi dei comici di oggi? E quali sono i tuoi modelli di riferimento?
«Credo che oggi ci siano più che altro grandi platee televisive, come “Zelig”, dove vanno molte persone, ma solo una o due meritano di essere seguite. C’è più quantità che qualità. Per quanto riguarda i miei “modelli”, posso citarti attori che ho ammirato ma non imitato: mi sono costruito da solo la mia personalità. E sono convinto che anche i comici di oggi debbano trovare ognuno una propria strada, un proprio stile, un proprio linguaggio. Io amo Jack Lemmon, Walther Matthau, Jerry Lewis e Marcello Mastroianni. Mi piace anche Jim Carrey quando non fa le macchiette e non imita Jerry Lewis».
All’appello manca un certo Alberto Sordi, di cui tu sei stato più volte definito l’erede naturale…
«Sordi non ha eredi: è una maschera unica, io sono solo un discepolo. Il Sordi in bianco e nero, quello de “I vitelloni”, “Lo scapolo” e “Il vedovo”, mi ha fatto amare la commedia italiana. Ma smettiamola di mettere a confronto me e lui. I paragoni tra noi due sono impraticabili: la nostra storia è diversa. Un domani, Sordi sarà stato Sordi e Verdone sarà stato Verdone».