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Design dell'interazione: Introduzione

05/10/2006 19487 lettori
5 minuti

Design dell'interazione. Un'esperienza di progettazione: www.comunitazione.it :-)

 

L’uomo, da sempre, utilizza gli artefatti per agire con il circostante, con l’ambiente e con gli altri esseri umani.

Tra la fine del 1800 e i primi anni del ‘900 abbiamo assistito ad uno stravolgimento del panorama tecnologico a disposizione dell’uomo, dalla lampadina di Tomson al giradischi di Edison, dalla radio di Marconi al telefono di Meucci, le scoperte scientifiche non sono mancate e hanno impresso all’uomo e alla sua vita una nuova e diversa velocità.

Il tempo, anche nell’arte, acquisisce un significato completamente diverso.

L’accelerazione tremenda che la tecnologia ha inflitto alla vita degli esseri umani è sotto gli occhi di tutti.

Ma c’è una cosa che non è cambiata: l’uomo ha ancora bisogno degli artefatti.

L’uomo ha da sempre interagito con il circostante per mezzo dei suoi sensi, aiutato dagli artefatti e protesi sensoriali. La tecnologia sembra poter rendere questa interazione più efficace, semplice e veloce, o almeno è quello che le abbiamo sempre chiesto.

I principi ispiratori di tutte le invenzioni sembrano essere questi:

• semplificare i compiti complessi;

• rendere efficace lo sforzo compiuto massimizzando i risultati, diminuendo gli errori;

• accelerare i processi, rendendoli più veloci, per ottenere maggiore tempo a disposizione da impiegare in altre cose;

• rendere piacevole, interessante e magari divertente un compito che potrebbe essere davvero noioso.

Prendiamo ad esempio la scrittura dei libri. L’amanuense doveva riscrivere a mano ogni singola lettera di un libro. I risultati, ottimi magari da un punto di vista calligrafico, erano però troppo costosi in termini di fatica e tempo.

L’invenzione dei caratteri mobili da parte di Gutemberg, ha permesso di trasferire il compito dall’amanuense ad una macchina, rendendo il lavoro più semplice e stravolgendo completamente la società futura. Con le macchine da stampa è possibile riprodurre un gran numero di libri in poco tempo, rendendo le copie sicuramente identiche, eliminando quindi anche gli errori dovuti alla trascrizione.

Il nuovo artefatto tecnologico permette così di:

a) semplificare il lavoro dell’uomo che non deve compiere macchinalmente infinite volte la stessa operazione. Gli basta, infatti, predisporre nel modo giusto i caratteri mobili su un telaio di legno e iniziare la stampa;

b) rendere efficace lo sforzo, poiché creato un cliché uguale per tutte le copie del libro, si avvia la stampa di infiniti volumi;

c) aumenta così la velocità di produzione e diminuiscono gli errori;

d) la parte emozionale invece è più difficile da verificare, ma riveste sicuramente un ruolo importante.

Oggi purtroppo l’uomo sembra essere diventato schiavo della tecnologia che ha egli stesso prodotto. Le macchine dettano i tempi, dirigono le operazione e rendono frustrante il compito da svolgere. Perché ciò accade?

Molto è frutto dal cattivo design, molto altro è frutto della cattiva interazione. L’interazione con gli artefatti anziché semplificarsi diventa sempre più complicata e, a volte, astratta.

Gli orologi dei videoregistratori che continuano a lampeggiare per segnalarci che non sono stati programmati, ferri da stiro, rasoi elettrici per la barba, orologi da polso, forni a microonde riposti in armadi e cassetti fermi ad aspettare che venga la voglia di imparare ad usarli: perché l’interazione con questi oggetti pur svolgendo una delle quattro funzioni che abbiamo individuato (solitamente la prima), non rispondono bene agli altri requisiti, perché se per pilotare un aereo di linea saremmo disposti a frequentare un corso di tre anni presso l’aviazione, per pilotare il nostro televisore pretendiamo (e giustamente) che non occorra far altro che accenderlo e premere sul telecomando.

Lo sforzo richiesto per utilizzare l’aereo è paragonabile ai risultati ottenuti: si deve guidare uno strumento che pesi migliaia di chilogrammi, si ha la responsabilità della vita di centinaia di persone, si deve guidare dall’Europa alle Americhe. Ma guardare il proprio programma preferito in televisione, non può richiedere lo stesso sforzo di apprendimento.

Lo sforzo per l’apprendimento di un artefatto e il compito da svolgere con esso, deve essere proporzionato.

Interagire, per un italiano, con un inglese è difficoltoso per via della lingua. Se nessuno dei due astanti conosce la lingua dell’altro l’interazione è difficoltosa. Quanto vale la pena allora imparare l’inglese, ad esempio, per un italiano?

In termini di costi/benefici, vale la pena imparare l’inglese se si volesse girare il mondo, se si è il manager di un’azienda o si vuol fare il traduttore, il giornalista o comunque un mestiere che presupponga la conoscenza delle lingue straniere. Lo sforzo deve essere proporzionale ai risultati attesi.

La stessa condizione vale anche per gli artefatti. Vale la pena di imparare ad usarli quando il beneficio che ne deriva supera il costo, in termini economici, ma anche cognitivi.

Gli artefatti troppo spesso richiedono uno sforzo eccessivo rispetto al risultato atteso, ragion per cui si preferisce evitare di usarli. In questi casi l’artefatto o non è stato progettato per quel determinato utente, oppure ha dei problemi di progettazione.

A chi non è capitato di imbattersi in artefatti che non rispondono ai nostri comandi inspiegabilmente, oppure a personale degli uffici (pubblici o privati qui non c’è differenza) che ci spiegano con sguardo smarrito che ciò che noi ragionevolmente chiediamo non è possibile realizzare?

Analizziamo alcuni esempi. Alcuni sistemi della Pubblica Amministrazione sono basati sui dati anagrafici dei contribuenti. Oltre i dati anagrafici più classici, viene richiesto il codice fiscale, sul quale il progettista ha spesso appoggiato l’affidabilità del sistema. Cosa vuol dire? Che se il codice fiscale inserito non è corretto il sistema non fa proseguire l’utente nella sua operazione. E’ capitato, negli ultimi anni, che alcuni utenti, pur avendo debitamente inserito il corretto codice fiscale si siano sentiti dire che era sbagliato. Perché succede questo? Perché il loro comune di nascita era stato accorpato ad altri comuni, e quindi il sistema non riconosceva più il codice ISTAT del comune di nascita (le penultime quattro cifre del codice fiscale).

A questo punto, questi malcapitati utenti non potevano far altro che interrompere la procedura e contattare, telefonicamente o di persona l’Amministrazione pubblica. La risposta fornita dagli addetti al call center non era meno spaventosa: noi non possiamo farci niente, poiché il sistema non prevede il suo codice ISTAT.

Di questo problema in particolare, se ne è occupato Valerio Staffelli durante una puntata di "al vostro posto" mandata in onda nel gennaio 2004 su Radio 24.

L’interfaccia progettata per questo sistema poteva anche essere la più corretta e plausibilmente usabile mai progettata, ma quello che qui non funzionava non era l’interfaccia, bensì il design dell’interazione:

a) erano stati cancellati dal sistema i vecchi parametri ISTAT;

b) non c’era la possibilità per l’utente (e neppure per l’amministratore del sistema) di forzare in qualche modo il sistema e fargli accettare il codice fiscale esatto.

Spesso a questo problema i progettisti rispondono: il sistema riconosce solo ciò che è giusto, non può sbagliare e i dati vanno inseriti nella giusta procedura.

A questo punto sorgono due ordini di domande differenti:

a) procedura esatta per chi? e (b) per quale motivo è stato previsto che il codice ISTAT potesse subire delle modifiche ma non il codice fiscale di alcuni contribuenti?

Con un esatto design dell’interazione, si può dare una risposta ad entrambe le domande: a) l’ordine esatto della procedura deve essere stabilita da ogni utente, indipendentemente dalla modalità di progettazione; e (b) nel caso di dati variabili come i codici ISTAT, si sarebbe dovuto prevedere una procedura di ripristino (o di forzatura) manuale del sistema, per permettere a questi utenti di compiere comunque la loro procedura. Mal che vada, si sarebbe potuto prevedere un sistema, per esempio, che avesse messo in stato di "ricevuta ma non elaborata" questa operazione, e dare la possibilità ad una persona fisica di controllare il sistema e verificare la validità della richiesta da parte dell’utente.

Il problema di progettazione è innanzitutto un problema semiotico, di significazione, di comunicazione delle funzioni tra l’oggetto e l’utente. Il problema dell’interazione viene risolto con un approccio di progettazione centrato sull’utente (UCD, user centered design), ma noi proporremo anche un approccio centrato sugli obiettivi dell’utente. Perché è vero che al centro del processo di design debba essere messo l’uomo con i suoi limiti e vincoli, ma ci pare più giusto, per la risoluzione del problema di interazione, partire concentrandosi sugli obiettivi che l’utente vuole raggiungere utilizzando l’artefatto e quindi, successivamente, prendere in analisi i vincoli dell’utente.

Utilizzando una procedura di questo tipo, nell’esempio sopra riportato sulle modifiche al codice ISTAT, analizzando gli obiettivi dell’utente si sarebbe comunque accettata la sua richiesta (che era il suo obiettivo) e si sarebbe proceduti ad una verifica manuale (o comunque successiva) dell’operazione, in modo da permettere in ogni caso, all’utente di raggiungere il proprio obiettivo: comunicare i propri dati al sistema.

In questo progetto di ricerca si prenderà ad esempio il progetto sperimentale di un vortale realizzato nel corso di questi anni di studio su questi problemi, da un punto di vista delle Scienze della Comunicazione, poiché, come abbiamo detto, il problema dell’interazione è un problema semiotico.

Partendo dal presupposto che l’utente, così come l’artefatto, sono due sistemi complessi, il problema di interazione è un problema di dialogo tra i due, e in quanto tale diventa un problema di comunicazione.

La nuova disciplina dell’interaction design sembra ben rispondere ai problemi sopracitati con approcci che guardano molto da vicino il campo della comunicazione tra l’utente e l’artefatto, mettendo al centro del processo proprio l’interazione tra i due sistemi.

Nell’ambito dell’interazione tra i sistemi, sempre più spesso si prende in considerazione la componente emozionale, che per l’uomo de la vita liquida assume sempre una maggiore importanza, in cui sono le interazioni emozionali ad assumere un valore aggiunto rispetto ai rapporti tradizionali. Potremmo in qualche modo parlare di un utente liquido degli artefatti, che galleggia tra i diversi mondi e i diversi saperi, alla ricerca di una componente ludica ed estetica della propria vita, che gli consenta un’interazione veloce, rapida, efficace ed efficiente seppur troppo spesso effimera, con il circostante e con i propri pari.

Nell’ambito dello studio delle Scienze della Comunicazione lo studio del design dell’interazione a questo punto sembrerebbe ben calarsi, in quanto potrebbe significare la giusta componente unificante le varie discipline delle Scienze della Comunicazione: dalla semiotica alla sociologia, dallo studio dei mezzi di comunicazione, per finire al disegno industriale. E’ proprio all’interno del corso di studio di Disegno Industriale che si è deciso di calare questa prospettiva di ricerca poiché è la disciplina più vicina allo studio dell’interazione dell’uomo con i prodotti industriali.

Non è ultima l’introduzione, all’interno del corso di studi di Scienze della Comunicazione, presso l’Università di Siena, del laboratorio di Interaction Design, il cui coordinatore è il professor Antonio Rizzo, eminente ricercatore dei problemi di design dell’interazione in Italia.

Luca Oliverio
Luca Oliverio

Luca Oliverio è il founder e editor in chief di comunitazione.it, community online nata nel 2002 con l'obiettivo di condividere il sapere e la conoscenza sui temi della strategia di marketing e di comunicazione.

Partner e Head of digital della Cernuto Pizzigoni & Partner.

Studia l'evoluzione sociale dei media e l'evoluzione mediale della società.