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7 - Design dell'interazione: Concettualizzare l’interazione

30/11/2006 19852 lettori
5 minuti

Design dell'interazione. Un'esperienza di progettazione: www.comunitazione.it :-)

Concettualizzare l’interazione

L’uomo progetta, costruisce e usa strumenti e artefatti per modellare ed interagire con l’ambiente che lo circonda. Gli strumenti sfruttano l’energia umana, trasformandola in azione concreta. Se l’azione è prevalentemente fisica, avremo a che fare con artefatti tecnologici, se invece la componente cognitiva nell’azione è preponderante, allora avremo artefatti cognitivi[1]. Il modo in cui è possibile interagire con gli artefatti, siano essi tecnologici o cognitivi, è l’interfaccia. Naturalmente l’interfaccia deve essere progettata tenendo presente i limiti fisici, fisiologici e antropometrici dell’uomo. Una buona interfaccia deve rendere visibili le operazione che con essa si possono compiere e come farle. A questo proposito Norman parla di modelli concettuali,

essi costituiscono parte di un concetto importante nella progettazione: i modelli mentali, i modelli che le persone hanno di sé, degli altri, dell’ambiente e delle cose con le quali interagiscono[2].

Fornire un buon modello concettuale: attraverso l’esperienza si formano dei modelli mentali, degli stereotipi di comportamento che ci vengono incontro nella comprensione e interazione con l’ambiente circostante. Chi progetta un oggetto deve fornire dei modelli mentali chiari e coerenti con le aspettative, le esperienze precedenti e la conoscenza del mondo da parte dell’utente, in modo tale che sia facile prevedere gli effetti delle proprie azioni sull’oggetto. Per esempio, quando si compra il nuovo televisore, non è difficile solitamente individuare il tasto di accensione sul telecomando, nonostante la schiera immane di altri tasti e funzioni. Quello dell’accensione è solitamente il tasto più grande ed è rosso; è posto nella prima fila a sinistra, perché la scansione degli oggetti per gli occidentali inizia dalla sinistra in alto. È la prima operazione da fare: accendere la tv; successivamente la si dovrà sintonizzare. Questa la mappa mentale dell’utente. Se volessimo disorientare l’utente, il tasto sarà piccolo come gli altri e di un colore a nostra scelta, posto tra gli altri tasti indistintamente. Il modello concettuale non sarebbe assolutamente rispettato e avremmo creato un fortissimo attrito cognitivo. Come vedremo in seguito, a volte è utile creare l’attrito cognitivo, per evitare ad esempio, lo svolgimento delle operazioni inconscie-automatiche, ma nella maggior parte dei casi il modello concettuale dell’utente va rispettato.

Rendere visibili le cose: osservando un oggetto l’utente deve essere in grado di conoscere lo stato dell’artefatto e di vedere le azioni che si possono compiere.

Diremo, con Raskin, che

una funzionalità dell’interfaccia è visibile se è accessibile a un organo di senso umano (di norma gli occhi, anche se la nostra discussione vale anche per altri organi di senso) oppure se è stata percepita abbastanza di recente da non essere ancora svanita dalla memoria a breve termine[3].

I progettisti nella realizzazione di un oggetto spesso valorizzano principalmente il design, a discapito del principio di visibilità, così che parti fondamentali rimangono “nascoste” per non intaccare l’estetica. Quanto tempo si perde solitamente per individuare il pulsante di accensione/spegnimento degli apparecchi elettronici? Qual è il pulsante di start del fax? Rendere visibili i link degli ipertesti rispettando le convenzioni, posizionare i pulsanti di accensione nella parte frontale, visibile, degli apparecchi domestici e d’ufficio, far si che ciò che può essere fatto con il sistema sia visibile e facilmente raggiungibile, sarebbe un ottimo principio per realizzare artefatti facili e usabili. Nella realtà le cose non stanno proprio così, e gli esempi sono sotto gli occhi di tutti quotidianamente.

Il design e l’estetica hanno una funzione fondamentale negli artefatti, ma progettare gli strumenti significa analizzare come gli utenti lo useranno, ed è quindi inutile nascondere le funzioni che andrebbero usate. Questo principio, come gli altri, troverà maggior approfondimento nel proseguo di questa discussione.

Le funzionalità che rispondono a queste caratteristiche vengono chiamate affordance[4]: le affordance forniscono indizi validi su come le cose debbano essere usate[5].

Il principio del mapping: il mapping è un termine tecnico che indica la relazione tra due cose, in questo caso tra i comandi e il loro azionamento e i risultati che ne derivano nel mondo esterno[6].

Un buon mapping naturale porta alla comprensione immediata, la relazione tra l’azione e il risultato è immediatamente percepibile, per analogia spaziale-funzionale, oppure per convenzione, o modelli culturali, appresi. Dare un calcio al pallone ha un effetto immediatamente valutabile. Con l’esperienza si impara ad imprimere la forza necessaria per far compiere alla sfera lo spazio desiderato. La relazione tra dare il calcio e il risultato è valutabile immediatamente. Tirare verso di se una porta per mezzo della maniglia, ha un effetto immediatamente valutabile; segue il mapping naturale. La maniglia se fissata da ambo i lati, a forma di anello è fatta per tirare. Una piastra è fatta per subire una pressione. Il mapping è suggerito anche dai materiali: sulla carta ci si scrive, sul legno ci si può incidere. I tavolini dei pub se fatti in legno vengono spesso incisi dai clienti, con la propria firma. Il legno invita a questa azione.

Altri modelli d’azione sono suggeriti invece dalle convenzioni e dalla cultura: il verde indica il via libera, il rosso uno stop. Le macchine industriali rispettano questo principio: il pulsante di avvio delle offset[7] è verde, quello di stop rosso[8]. Ma non sarà il caso di mettere questi dispositivi lontani dalla portata dell’utente. Le ultime macchine industriali hanno pulsanti di stop disseminate su tutte le parti della macchina dove è presumibile che l’utente si trovi a lavorare. Un ottimo principio: rendere visibili e raggiungibili gli strumenti di interazione[9].

Il principio del feedback: ammettiamo di avere la batteria del cellulare quasi scarica, ma tentiamo ugualmente di inviare un Sms. Dopo aver premuto “Invio” però il cellulare si spegne. L’Sms sarà stato inviato? Non possiamo saperlo non avendo ricevuto nessun feedback in merito (se l’invio ha avuto buon fine il cellulare visualizza sul display un messaggio simile a “Messaggio inviato”). Il feedback è quell’informazione di ritorno che ci dice quali risultati abbiamo ottenuto con la nostra azione. Anche nell’interazione con il computer il feedback è fondamentale, ad esempio quando si selezione una cartella con il click del mouse, la cartella assume un colore differente, che ci fa capire che il sistema ha riconosciuto il nostro comando. Magari il sistema è un po’ lento e ci vorrà qualche istante prima che la cartella selezionata si apra, ma consapevoli della cosa si attende il buon fine della nostra azione. Se però non si fornissero queste banali informazioni di ritorno, c’è il rischio che l’utente si senta frustrato e pensi o a un proprio errore o ad un problema del sistema.

Norman parla anche della proprietà di affordance (detta anche “invito all’uso”) che un oggetto dovrebbe possedere. Si intende la proprietà reale o percepita di un prodotto di suggerire il proprio funzionamento. Quando gli inviti all’uso sono ben impiegati, il prodotto diventa autoesplicativo, di conseguenza all’utente dovrebbe bastare guardare l’oggetto per capire quali operazioni può effettuare. Un classico esempio è quello della maniglia di una porta, che automaticamente invita alla presa della stessa per aprire.

In merito alla progettazione di interfacce software, Norman sostiene che l’utilizzo di metafore non sia così efficace come sembrano essere convinti molti progettisti. Innanzitutto afferma che il concetto di metafora sia di per sé fuorviante. «Le metafore non sono altro che il tentativo di usare una cosa per rappresentarne un’altra, che rimane una cosa diversa.» A meno che le proprietà dell’oggetto in studio non siano strettamente correlate a quelle della metafora, progettare una qualsiasi cosa partendo da una metafora non rende “l’oggetto” più comprensibile. Ribadendo le linee guida viste precedentemente, Norman ritiene che il modo migliore per rendere chiaro il funzionamento di qualsiasi artefatto è quello di preparare un modello concettuale pulito, chiaro e comprensibile.



[1]  Per approfondimenti sull’artefatto cognitivo si veda Norman.
[2] Norman, D., La Caffettiera del Masochista, Giunti, Firenze 1988, p. 25.
[3] Raskin, op. cit. p. 70.
[4] Norman, op. cit. p. 123.
[5]Ibidem, p. 9.
[6]Ivi, p. 32.
[7]  L’offset è la macchina da stampa litografica.
[8]  I quadri di comando delle macchine industriali sono stati standardizzati per legge, anche se in Italia è sempre esistita una forma di standardizzazione culturale per cui anche le macchine più vecchie rispettano questo principio.
[9]  Jef Raskin, a questo proposito propone un attenta analisi anche dei tempi di risposta degli utenti; non basta uno studio ergonomico della fisiologia, ma va fatto anche uno studio sui tempi di risposta dell’uomo. Da notarsi infatti che la legge europea punisce il guidatore in stato di ebbrezza, in quanto i tempi di risposta agli stimoli diminuisce, e per spostare il piede dall’acceleratore al freno, in condizioni non ideali, aumenta, oltre al tempo di risposta. E’ necessario dunque, inserire a questo proposito gli studi sulla misurazione dei tempi dell’interfaccia.

Luca Oliverio
Luca Oliverio

Luca Oliverio è il founder e editor in chief di comunitazione.it, community online nata nel 2002 con l'obiettivo di condividere il sapere e la conoscenza sui temi della strategia di marketing e di comunicazione.

Partner e Head of digital della Cernuto Pizzigoni & Partner.

Studia l'evoluzione sociale dei media e l'evoluzione mediale della società.