4 - Design dell'interazione: l'interfaccia
Design dell'interazione. Un'esperienza di progettazione: www.comunitazione.it :-)
L'interfaccia
Quello dell’interfaccia è un problema discusso e molto complesso, che investe contemporaneamente diversi ambiti del sapere accademico. Nell’ambito dell’informatica il termine viene spesso usato per designare il luogo di connessione tra gli elementi di input/output (il mouse per esempio) e il pc, in quanto luogo di interazione tra l’oggetto e il sistema. L’impugnatura di un martello è l’interfaccia che noi abbiamo per interagire (usare) con il martello; i due ditali della forbice sono un’interfaccia. Non è raro trovare però il termine interfaccia utilizzato nella comunicazione umana “[…] il front-office è l’interfaccia con il pubblico […]”.
In linea generica potremmo quindi definire l’interfaccia come un sistema di relazioni, intese genericamente come scambio di informazioni tra almeno due entità, oggetto-oggetto, oggetto-persona, persona-persona. È ovvio che questo sistema può essere complicato con l’aggiunta di altri sistemi: persona-oggetto-oggetto-persona per esempio nel caso della chat attraverso il computer.
Così Gui Bonsiepe[1]
“Un’interfaccia umana è la somma degli scambi comunicativi tra il computer e l’utente. E’ ciò che presenta comunicazione all’utente e riceve informazione dall’utente.”
[...]
“Lo schema è composto di tre ambiti (...). In primo luogo c’è un utente, o un agente sociale, che vuole effettivamente compiere un’azione. In secondo luogo c’è un compito, che egli vuole eseguire (...). In terzo luogo c’è un utensile o un artefatto di cui l’agente ha bisogno per portare effettivamente a termine l’azione. (...) Il collegamento di questi tre campi avviene tramite un’interfaccia. E’ necessario pensare che l’interfaccia non è un oggetto, ma uno spazio in cui si articola l’interazione fra corpo umano, utensile (artefatto, inteso sia come artefatto oggettuale sia come artefatto comunicativo) e scopo dell’azione.
L’interfaccia trasforma la semplice esistenza fisica (...) in disponibilità[2]”.
Il processo d’interazione con il circostante, siano essi persone, macchine o cose, è mediato per mezzo di un’interfaccia. Nella comunicazione umana il nostro viso, la prossemica, la comunicazione metalinguistica compongono l’interfaccia con la quale dobbiamo rapportarci. Nel caso della macchine, invece, spesso si fa risalire l’interfaccia con l’interfaccia grafica, anche se, come vedremo in seguito, non è solo questo.
Con il termine interfaccia originariamente ci si riferisce alla visualizzazione sul display delle informazioni attraverso le quali l’utente può interagire con il sistema[3]. Successivamente il termine è stato preso a prestito da altre discipline fino ad entrare nel gergo comune per identificare il luogo di interazione tra l’oggetto e l’uomo, tra artefatto e chi lo deve utilizzare. A questo punto l’interfaccia gioca un ruolo essenziale nel design e nella progettazione degli oggetti[4]. Tuttavia questa nuova accezione del termine costringe il termine a designare esclusivamente l’utilizzo immediato e tattile dell’oggetto.
Ritroviamo dunque due diverse accezioni del termine, una sposata dai tecnologi, l’altra dai designer.
In modo molto semplice e ugualmente appropriato, Nicholas Negroponte descrive l’interfaccia come il luogo dove la gente e i bit si incontrano[5] . E prosegue:
l’interfaccia non riguarda solo gli aspetti visivi e tattili della comunicazione col computer essa ha a che fare con la creazione di una personalità, il progetto dell’intelligenza e con la realizzazione di macchine in grado di riconoscere espressioni tipicamente umane.
[…] la sfida del prossimo decennio […] è di realizzare computer in grado di conoscervi, di apprendere quali sono le vostre necessità, di capire i messaggi verbali e non verbali[6].
Schulley, gran capo dell’Apple, è stato autore tra le altre cose, del libro Odissey. All’interno del libro illustrava un’interfaccia del futuro che andasse ben oltre mouse e tastiera (gli input più utilizzati oggi per interagire con la macchina): illustrava il navigatore della conoscenza; un agente intelligente, in grado di vedere, sentire e dare risposte intelligenti come un vero assistente umano. Nel video realizzato dal libro di Schulley in particolare, il navigatore della conoscenza veniva utilizzato da un docente per farsi aiutare nel preparare
Anche questa è un’interfaccia.
Jef Raskin[8] (1993) sostiene invece che:
interfaccia è il modo in cui si fa qualcosa con uno strumento: le azioni che dobbiamo eseguire e il modo in cui lo strumento risponde.
La definizione di Raskin, così come quella di Negroponte ricuce lo strappo, indicando nell’interfaccia le due cose, il design e il comportamento dell’oggetto, da cui non si può prescindere. Un’interpretazione linguistica-semiotica da un lato, che fa leva sull’aspetto comunicativo-interattivo dell’interfaccia. Dall’altro lato, invece, troviamo una considerazione tecnica: come lo strumento risponde, in termini funzionali.
L’interfaccia è pertanto il sistema di comunicazione tra l’utente e l’artefatto, e il modo con cui l’artefatto deve (dovrebbe) rispondere.
Prendiamo ad esempio il sito internet più utilizzato nel mondo per effettuare ricerche di determinati argomenti sull’internet: Google.
Google si presenta con una veste grafica alquanto veloce, elastica e relativamente scarna. Quando digitiamo la parola o la frase che ci interessa trovare, il sistema ci risponde con una lista di siti da andare a visitare. L’ordine con cui viene fornita la risposta è determinato da un complesso algoritmo che ha fatto la fortuna della società di Mountain View. Come si può ben notare in questo caso, il design dell’interfaccia non ha riguardato solo la veste grafica, ma soprattutto il modo in cui il sistema fornisce delle risposte.
Nel nostro Progetto, ad esempio, abbiamo creato un sistema di interfaccia che fornisce risposte coerenti con le ricerche effettuate dagli utenti sui motori di ricerca.
Avremo modo di parlarne successivamente. ma è utile qui introdurne il principio.
Se un utente, ad esempio, su uno dei motore di ricerca scrive la stringa “interaction design” e seleziona il risultato proveniente dal sito di Comunitàzione, l’interfaccia del nostro progetto gli offrirà non solo il risultato che aveva trovato il motore di ricerca, ma altri possibili risultati utili alla ricerca dell’utente, per mezzo di un agente intelligente, che, scandagliando il database a sua disposizione, ed un vocabolario costruito su misura per il web site in oggetto, andrà a recuperare articoli correlati con la fonte, in modo dinamico.
Come è evidente, in questo caso (la progettazione del)l’interfaccia non ha riguardato solo gli aspetti comunicativi dell’artefatto cognitivo, ma anche e soprattutto gli aspetti funzionali; partendo dal presupposto che l’utente volesse reperire informazioni su un oggetto di analisi (in questo caso sull’interaction design), il sistema gli sta suggerendo altri risultati coerenti con la sua ricerca, per invitarlo a continuare la navigazione, e soprattutto per facilitare il suo compito: reperire delle informazioni.
Questa applicazione, nell’ambito dell’interaction design è interessante per due aspetti:
a) consente all’utente di poter approfondire l’argomento della sua ricerca senza dover tornare sui search engine;
b) dall’altro lato offre la possibilità, per l’editore del sito, di trattenere gli utenti sul proprio spazio web.
La nascita di questo tipo di agenti intelligenti la si deve alle ricerche effettuate sugli utenti e sui loro obiettivi di navigazione, improntati per questa ricerca, e per altre fatte da colleghi su altre piattaforme web.
In effetti, l’interfaccia con uno strumento prevede anche che lo strumento sappia come comportarsi nei nostri confronti fornendoci le risposte più appropriate alle nostre esigenze.
Questa concezione delle interfacce però prevede che il processo di design sia integrato nel processo di scrittura del codice o, meglio ancora, che l’artefatto cognitivo venga costruito in tutte le sue parti in collaborazione tra l’interaction designer, i programmatori, gli uomini del marketing e tutti gli altri operatori coinvolti.
Se così non fosse, si corre il rischio di autorizzare i programmatori a fare ragionamenti di questo tipo: scrivo il codice sorgente come mi pare e piace, tanto poi qualcuno penserà a incollare sopra un’interfaccia[9].
Quindi, come abbiamo visto, l’analisi dell’interfaccia è da farsi da due punti di vista:
a) uno funzionale, in termini di risposta;
b) l’altro in termini comunicativi-interattivi, ovvero di design.
In effetti, anche la componente emozionale legata al design ha la sua importanza:
ciò che molti non riconoscono è che esiste una forte componente emozionale nel modo in cui i prodotti vengono progettati e utilizzati.[10]
Concentriamoci un attimo su queste due funzioni. Eco, nella Struttura assente, distingueva tra funzione prima e funzione seconda per gli oggetti di architettura e di design: la funzione dell’oggetto da ciò che l’oggetto comunica.
Come dice lo stesso Eco, solitamente la forma segue la funzione:
quando la forma che pur segue la funzione, non comunica la sua funzione, allora nasce il problema dell’interfaccia. L’interfaccia è un problema semiotico, la forma che segue la funzione no.
Eco dunque identifica l’interfaccia nella definizione di Raskin, ovvero il luogo di interazione e di comunicazione tra l’utente e lo strumento. E sottopone quindi l’interfaccia all’analisi della semiotica.
[…] L’interfaccia non ha nulla a che fare con il calco. Ovvero, il calco è sempre stata la forma più biologicamente e fisiologicamente elementare dell’interfaccia ma non ogni interfaccia è un calco. […]Dove c’è calco non c’è mediazione. C’è iconismo, congruenza (e in termini di psicologia cognitiva potremmo parlare, con Gibson, di affordance). […] una semiotica di questo tipo di interfaccia è naturalmente ancora un capitolo dell’ergonomia, ma non ha più nulla a che fare con una semiotica del calco.
L’alternativa tra una dimensione protetica delle interfacce e una interattiva non dovrebbe essere intesa come esclusiva, però. In effetti, l’interfaccia è in un primo momento sempre protesi, in quanto estende le capacità d’azione e d’agire dell’essere umano, ma nel momento stesso in cui si sottolinea l’importanza della relazione linguistica della costruzione dell’interfaccia, viene in primo piano anche l’organizzazione semantica dello strumento e quindi la sua utilizzabilità. L’utilità di un artefatto cognitivo non si esaurisce di solito nel permettere di realizzare con minore fatica dei compiti già noti. L’interfaccia non deve limitarsi a permettere all’utente di realizzare quello che vuole sulla base delle sue competenze iniziali, ma deve anche metterlo nella condizione di apprendere le possibilità operative insospettate, proponendogli dei momenti di frattura controllata, guidati “a distanza” dallo stesso designer[11].
Questa distinzione ci è utile, a questo punto per cogliere il nesso tra lo studio dell’interfaccia, dell’interfaccia uomo-computer (HCI) e lo studio dell’interaction design. Siamo perfettamente d’accordo con Cooper quando afferma:
Ecco perché “al termine architettura dell’interfaccia preferisco quello di interaction design, design dell’interazione, perché il termine “interfaccia” sembra voler dire che abbiamo da un lato il codice, dall’altro le persone e in mezzo un’interfaccia che deve mediare tra i due. […] L’architettura dell’interfaccia è un po’ come far indossare ad Attila un vestito di Armani: serve solo a camuffare un comportamento preesistente[12].
L’interfaccia, quindi, media sì l’interazione, ma fornisce anche gli strumenti cognitivi per cui questa comunicazione possa aver luogo con il minor attrito cognitivo. E’ Norman ancora una volta ad abbracciare questa teoria, seppur in modo un po’ diverso:
Quando un computer viene inserito all’interno dell’infodomestico, è possibile svolgere utili lavori senza che l’utente debba essere necessariamente cosciente della sua presenza.
Tutti gli autori sembrano essere d’accordo su questo punto: un sistema interattivo basato sui microchip deve diventare trasparente all’utente. Una radio, una sveglia, un ferro da stiro, devono continuare a svolgere la loro funzione prima nonostante l’innesto della tecnologia. L’intervento della tecnologia deve servire per migliorare la funzione prima: per esempio la memorizzazione delle stazioni radio, l’impostazioni di più di una sveglia, il riconoscimento automatico del tessuto per impostare la temperatura dell’artefatto; deve rendere esplicita la funzione prima e migliorare la funzione seconda, ovvero l’interazione con l’artefatto e se possibile la tecnologia deve scomparire, essere inglobata nell’artefatto ma non ne deve diventare il principio di funzionamento.
Prendiamo, ad esempio, un ferro da stiro. Potrebbe tranquillamente riconoscere automaticamente dicevamo il tessuto che si sta stirando, impostare la sua temperatura ed evitare che se viene dimenticato su una camicia, la bruci, riconoscendo per assurdo le temperature limite. Ma la stessa tecnologia non deve essere imperante, impedire l’uso dell’artefatto a chi non conosce
Un utilissimo esempio a questo proposito lo porta Neil Gershenfeld (1999). Nel suo laboratorio al MediaLab hanno realizzato un archetto per il violoncello di Yo-Yo che sfiorando le corde di un comune violoncello potesse emulare il suono di uno
sarà soltanto quando la nostra tecnologia sarà poco invadente e invisibile come quella dello
Come si è potuto evincere da questa breve trattazione dell’argomento, le interfacce sono terreno di ricerca per diversi campi del sapere scientifico, dall’ergonomia al design, dalla sociologia all’informatica. Le interfacce, inserite in questo contesto di studio e progettazione, verranno analizzate in ogni aspetto, senza farne distinzione, così come la pratica dell’interaction designer prevede.
Questo tipo di ricerca si inserisce negli studi delle Scienze della Comunicazione, in quanto l’interfaccia e il design sono sempre un fatto comunicativo, come abbiamo visto, e comunque sono da intendersi campo di ricerca preminente per le Scienze della Comunicazione, proprio in quanto è il corso di laurea, a nostro parere, che meglio contiene e forma le esigenze del designer dell’interazione.
[1] Bonsiepe, G., Dall’oggetto all’interfaccia- mutazioni del design, Feltrinelli-Milano, 1995.
[2] Bonsiepe, G., op. cit. p. 54
[3] Johnson 2001, op. cit., pp. 45-48
[4] Bonsiepe, 1995, op. cit., pp. 25-26.
[5] Negroponte, N., op. cit., p. 87.
[6] Ivi, p. 90.
[7] Ivi, p. 87.
[8] Raskin, J., op. cit., p 65.
[9] Cooper, A., op. cit.
[10] Donald Norman, Emotional Design, Apogeo, Milano 2004.
[11] Si fa qui riferimento alla ricerca presentata da Daniela Barbieri su “Linea grafica” N°1 del 1993, Progettare l’interazione, dove la Barbieri raccontava la creazione di un sistema MuG realizzato presso l’Istituto di Discipline della Comunicazione dell’Università di Bologna, da un’idea di Umberto Eco.
[12] Cooper, A., op. cit. p. 5.
[13] Gershenfeld, N., Quando le cose iniziano a pensare, Garzanti 1999, pp. 33-49.