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Brand reputation e responsabilità sociale della pubblicità

26/01/2007 29067 lettori
4 minuti

Alma Mater Studiorum - Universita’ Di Bologna

Corso di laurea in

Scienze della comunicazione pubblica, sociale e politica

 Abstract

La mia tesi ruota attorno a due concetti principali, quelli di brand reputation (reputazionedel marchio), estendibile all’impresa in generale (“corporate reputation”), e responsabilità sociale. La domanda che infatti mi pongo è com e una pubblicità socialmente responsabile possa risultare positiva non solo per i diretti destinatari ma anche per l’impresa e la sua reputazione.

 

Negli ultimi anni, di fronte al diffondersi di una consapevolezza sempre più ampia della rilevanza sociale dei media e dunque anche della pubblicità, nonché all’emergere di un nuovo tipo di consumatore, definito “critico”, in quanto sempre più attento al “modus operandi” dell’impresa, diverse figure sociali sono scese in campo per esprimere le loro considerazioni in merito.

La mia tesi si propone di raccogliere e mettere a confronto queste opinioni con alcuni dati empirici derivanti da varie ricerche, volte ad individuare proprio l’incidenza della pubblicità sulla società.

Dalle recenti indagini emerge che esiste una stretta relazione tra la pubblicità ed alcune delle problematiche che caratterizzano la società, in particolare quelle categorie più “deboli”, quali possono essere minori e anziani; si tratta di problematiche di varia natura, che possono risultare più o meno gravi, a seconda che riguardino la salute psico-fisica dell’individuo o più semplicemente la diffusione di idee e visioni della realtà spesso fuorvianti (enfatizzando troppo certi valori a discapito di altri). I pubblicitari hanno pertanto una grande responsabilità sociale, in quanto il loro compito non è solo quello di indirizzare l’uomo verso l’acquisizione continua di beni materiali, ma di promuovere una vera comunicazione che porti alla crescita, allo sviluppo ed alla maturazione dell’uomo stesso, nel rispetto di sé e degli altri.

La pubblicità ha, dunque, sempre un valore sociale, è una leva che fa girare l’economia. Ma è una leva particolare, visto che è veicolata dai mass-media e si rivolge ai sentimenti della popolazione.

 

La normativa giuridica esistente, per quanto ci siano stati nel corso degli anni notevoli sviluppi che hanno portato ad un aumento dei settori posti sotto controllo, rappresenta solo una forma di controllo parziale dell’attività pubblicitaria, in quanto la responsabilità, l’attenzione e il buon gusto sono norme non ascrivibili, norme cioè non presenti in nessun regolamento. Del resto però il concetto di responsabilità sociale sta prendendo sempre più piede nell’ambito della politica aziendale, se ne discute tra gli addetti ai lavori e tra un pubblico più ampio.

 

A questo punto sembra legittimo chiedersi se non sia necessario avviare un processo di cambiamento verso una nuova cultura della comunicazione, caratterizzata da nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici, più sensibile ai problemi che nascono dalla sua interazione con un ambiente in continua e rapida evoluzione: la spinta dovrebbe provenire in primis dai professionisti del settore, nonché dai loro committenti, che esercitano spesso forti pressioni sulle agenzie pubblicitarie e che, al contrario, dovrebbero acquisire consapevolezza riguardo non solo i benefici sul lato economico, ma anche le influenze negative che la pubblicità esercita su quello sociale e culturale, derivanti soprattutto dall’invadenza con la quale si propone e dalla ragnatela ideologica che i suoi messaggi costruiscono incessantemente giorno dopo giorno.

 

In questa tesi ho inoltre cercato di individuare, sulla base delle analisi svolte, dei parametric di riferimento che una pubblicità commerciale dovrebbe rispettare per ricevere il marchio di “conformità etica” e risultare socialmente responsabile e di conseguenza per concorrere alla costruzione di una “brand reputation” positiva. Alcune aziende si stanno già muovendo in questa direzione (è il caso di Heineken, Nastro Azzurro, Kraft, Vivident Xylit e Microsoft), ma la strada da percorrere è ancora abbastanza lunga e tortuosa: ne è una dimostrazione il fatto che in Italia, su 70 mila comunicatori attivi, il numero di adesioni alle diverse associazioni professionali non supera il valore di 5 mila. Meno del 10% dei comunicatori professionisti in attività è sufficientemente consapevole del suo lavoro da sentire l'esigenza di far parte di un’associazione professionale. E’ questo un indice esplicito della scarsa responsabilità sociale dei comunicatori (non solo in Italia) e ragion per cui ci auspichiamo che gli argomenti trattati diventino oggetto di riflessione di molti e che il fenomeno abbia ulteriori e positivi sviluppi.

 

Carla Di Gianvincenzo

 

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