Andrea De Carlo: il suo mare delle verità
Conoscere Andrea De Carlo è come svelare quel sottile trucco magico che separa lo scrittore dai suoi romanzi, una sensazione accomunabile a ogni autore di libri, ma con lui è istintivamente diverso, eclettico artista diviso dalla penna e un’arte espressa nelle sue varie sfaccettature, dalla fotografia alla pittura, dalla musica alla parola... un linguaggio universale che tra le sue mani diventa quell’introspettiva voglia di narrare ogni attimo che fa di una vita romanzo, tra dogmi sociali sapientemente filtrati da una capacità narrativa capace di maturare e rinnovarsi, in una crescita umana che accompagna inevitabilmente il percorso artistico di ogni scrittore. Nato a Milano l’11 dicembre 1952, da madre traduttrice e padre architetto (Giancarlo De Carlo), adempie la sua formazione scolastica con il liceo Classico e una laurea in Storia Contemporanea, che lo introducono in quell’universo esplorato dai suoi stessi viaggi, crogiolo inevitabile di quel bagaglio emozionale che impartisce nei suoi romanzi, dagli Stati Uniti all’Australia, per terminare il suo itinerario nello stesso Belpaese, nella casa di campagna di Urbino, dove emergono i fondamentali segni caratteristici del suo romanzo più espressivo e narrativo, Due di due (1989), una storia di amicizia intensa suddivisa dal suo ego e Guido Laremi, l’impersonificazione del ribelle impossibile a cui tutto è concesso (l’autore di Canemacchina), nel disagio che mai scade nella banalità, nella capacità di concretizzare ciò che la stessa razionalità non nega all’io narrante, vero protagonista della sua stessa vita. Quella continua lotta tra i bisogni pratici e artistici, in quel bisogno di cinema che ha saputo suddividere in ugual misura nello stesso Di noi tre (1997), tra Livio e Marco Traversi, eclettico aspirante regista dalle visionarie ambizioni che si esauriscono nel possesso di una donna (Misia) combattutta dalle due identità, nello stesso novello pittore narrante che assorbe un finale che appiana ogni dissapore inutile (molte delle copertine dei suoi libri sono lavori pittorici eseguiti da Andrea De Carlo). Quell’esordio letterario di Treno di Panna (1981), di un venticinquenne che si appresta a scoprire la vita come lo stesso Giovanni, alla ricerca di affermare la propria personalità già distinta (il successivo Uccelli da gabbia e da voliera appare sempre più un sequel), risvolti che diventeranno l’unico lavoro cinematografico del regista, in un film diretto da lui stesso nel 1988 (Sergio Rubini e Carol Alt tra i protagonisti), come conferma stessa del sodalizio che lo ha legato a Federico Fellini, diventato dedica nello stesso Macno (1984), il romanzo più letterario e al tempo stesso asettico di Andrea De Carlo (visto la caratteristica tipica della propria narrativa), interamente narrato in terza persona e dai tempi più legati a una visione d’insieme, devoti agli stereotipi più commerciali di una cultura più americana del romanzo. Una anticipazione del dogma diventato culto nel Neo di Matrix, quel coinvolgimento nelle sorti di un destino che accomuna un Paese nei risvolti terroristici devoti a un genere non proprio dello scrittore, riproponendo una versione più fedele al suo stile nel proprio Arcodamore (1993), nelle quotidianità assorbite da Leo Cernitori, fotografo che lega la sua capacità ed esistenza a Manuela Duini, giovane musicista che lo aiuta a recuperare la fiducia in un rapporto sentimentale, tipico dello scrittore, costante della sua narrativa autobiografica, frammenti artistici legati dallo stesso perno espresso come citazione in Yucatàn (1986),"Quasi tutti i suoi film iniziano o finiscono in un aeroporto; ho letto da qualche parte che è una specie di simbolo della casualità della vita, o qualcosa del genere". Risvolti riproposti poi in Uto (1995), in cui romanzo e stile narrativo stabiliscono un sapore rinnovato, in quella cura epistolare nell’esprimere i protagonisti, dove rabbia e disagio conoscono un nuovo bisogno di essere fuggenti e realistici. Tecniche di seduzione (1991) diventa così il romanzo più saldamente legato alla realtà dello scrittore stesso, nel protagonista Roberto Bata, giornalista e aspirante scrittore, che intreccia la sua professione con i sogni riposti in quel manoscritto che mai vedrà i fasti di un successo, per mano di uno scaltro Polidori che diventa una sorta di tutore-autore, la lucidità di chi ripiega gli specchi di una celebrità più scomoda che credibile. La delusione di un rapporto sentimentale, in quella maturità definita da un matrimonio scomodo e infelice, lega, quindi, come costante la parte caratteriale meno giovanile di Andrea De Carlo, rendendo più acute le sensazioni di disprezzo verso una vita imposta e difficilmente controllabile, segnata da una quotidianità claustrofobica nella propria passività, come nell’inerzia vitale di Luca e Anna, in Nel momento (1999), riassumibile nella stessa citazione "E’ come se il destino ti desse una sola possibilità, e concentrasse tutto dentro quel momento preciso, e lo facesse diventare così breve che la maggior parte delle persone non se ne rende conto, o non è abbastanza pronta da reagire in tempo". Si passa quindi dallo stesso Pura vita, I veri nomi e Giro di Vento, per arrivare al romanzo più maturo e sofisticato dello scrittore, Mare delle Verità (2006), ultimo lavoro denso di segnali volutamente più elaborati, non tanto nella verbalità, ma nella ricercata opacità in sospeso tra romanzo e realtà, in una narrazione sempre fedele all’introspettiva tipica di Andrea De Carlo, senza sbilanciare l’eccesso in una ripetitività di ruoli che non pesano assolutamente nella dinamicità del racconto. La ricerca di una identità di Lorenzo Telmari, protagonista malinconico di una vita arrivata a una svolta incisiva, nella morte di un padre diviso tra i due figli e fratelli, alle rispettive compagne che sembrano assistere e accompagnare l’incedere degli eventi, presenze salde che rivestono i propri ruoli, indispensabili e determinanti, nella felicità come desiderio sensuale dello stesso autore. Andrea De Carlo sembra, oggi, lo stesso ragazzo vestito di sogni ed entusiasmo degli esordi letterari, cullato da una reale capacità di esprimersi attraverso ogni cellula del proprio corpo, con occhi vivaci e ancora avidi di raccontare le emozioni della vita, che sia arte, parole o musica. Quella capacità che mai ha deluso il lettore, come lo stesso Italo Calvino, autore della prefazione del suo primo Treno di Panna, padre putativo, quindi, di quel giovane esordiente che ha accompagnato gli ultimi venticinque anni di narrativa italiana, e di cui ne riporto, per concludere, una breve parte: "Oggi ci imbattiamo spesso in una scrittura giovanile in cui domina lo sfogo degli stati d’animo, il rimescolamento interiore, il dramma esistenziale: nati da un’esigenza di sincerità assoluta questi testi di solito non ci dànno che un repertorio di clichés e di espressioni generiche: schermi verbali che nascondono più di quanto non esprimono. Andrea De Carlo è tutto il contrario: proiettato come è sul "fuori" non è escluso che egli riesca a farci intravedere qualcosa del "dentro". Forse perché sa correre il rischio di scoprire che "dentro" potrebbe esserci il vuoto; ma si tratterebbe comunque d’un vuoto tutto particolare, e il suo problema sarebbe sempre quello di darcene un’immagine precisa".