Bentornato Indy!
Indiana Jones è tornato, sicuramente senza troppe costrizioni nell’indossare nuovamente giubbotto consunto e frusta sempre a portata di mano, ma se l’archeologo è un sessantenne che sa ancora elargire battute ironiche e prestanza fisica capace di assecondare gli acciacchi di un’età da matusa (la parola più tritata dallo stesso Shia LaBeouf), bè... allora Spielberg, con la complice amicizia della Lucasfilm, ha fatto di nuovo centro, e alla grande !
I tempi del secondo conflitto bellico sembrano essere solo un brutto ricordo, visto che dieci anni hanno saputo destabilizzare un’America assorbita da quella sana voglia di ricostruire, in stile tipicamente "all graffiti", ma le vecchie abitudini devono, fortunatamente, rimanere tali e oggi la minaccia tedesca si traveste di un comunismo immerso nella più rigeneratrice Guerra Fredda di tutti i tempi. Un prologo all’altezza di ogni merito, con una sapiente strizzatina d’occhio a quella ribellione giovanile vestita di perbenismo, d’altronde siamo "solo" nel 1957 e i russi possono servire benissimo anche a innocenti duelli in macchina, per introdurre quei nuovi miti cinematografici dell’epoca che si intrecciano alla stessa sceneggiatura voluta da Spielberg. Per forza, visto che il ventenne Mutt Williams (LaBeouf) sembra perfettamente a suo agio in capelli impomatati, pettine in tasca, giubbotto e motocicletta oversize. Ed è proprio da un sequestro perpetuato dai militari sovietici che il professor Jones viene letteralmente rimesso in azione, prima scaraventato fuori dallo scomodo bagagliaio delle spie del KGB, dove, fuori dall’Hangar 51, l’ombra di uno stanco Jones si rialza e afferra la sua inseparabile Fedora (il cappello più famoso di tutti i tempi) e prende confidenza con quella vèrve capace di rimettere in gioco le sorti di una innata capacità di districarsi dalle situazioni più difficili. Sicuramente l’androgina Cate Blanchette, cocca di Stalin, sa vestire al meglio il ruolo della cattiva di turno Irina Spalko, prima obbligando Indiana Jones a fare da guida per recuperare un sarcofago di provenienza extraterrestre, tra corridoi magnetizzati dello stesso Hangar (rispolverando i nostalgici lustri di quell’arca perduta che, snobbata dall’attenzione di tutti, ci regala un piccolo cameo a giochi fatti), poi nello scontro finale, dopo aver riunito gli interessi dell’FBI che, recuperando lo stesso Jones scampato da un esperimento atomico (ringraziando un vecchio frigorifero ignifugo al piombo, letteralmente scaraventato dall’esplosione del fungo e tanto di ringraziamento per averci salvato l’archeologo più conteso di tutti i tempi), lo costringono a lasciare gli States e la sua amata accademia, dove continua ad insegnare nelle miti vesti di docente, per trasferirsi a Londra, per motivi di sicurezza nazionale.
Qui entra in scena l’esuberante Mutt, inseguendolo sui binari della stazione, mentre Jones sembra non voler assecondare le ragioni del giovane. Ma saranno le tracce e il movente di una antica lettera finita nelle mani del giovane scavezzacollo per volere di sua madre (la ritrovata Marion Ravenwood), che la partita di Indy sembra riprendere nuovi interessi. L’azione si sposta in Perù, sulle tracce del professor Harold Oxley (John Hurt), ricercatore della mitica città di Eldorado, e tutore di un segreto celato in quei tredici teschi di cristallo, che sanno essere la porta verso una conoscenza aliena che sembra non dover essere violata. Tra cultura Maya e guardiani degni dei migliori riferimenti ai tuggs del "Tempio maledetto", tutto si svolge nel monito del grande cinema, per dare merito al culto di una tradizione che deve mantenere intatto lo spirito del film d’avventura e della stessa cultura a cui deve dare nutrimento. Formiche giganti, cascate torrenziali e falciatrici apripista tra le mani di un governo sovietico che sanno dare emozioni e divertimento degni del migliore Spielberg, tutto si risolve come lo stesso trionfale finale, dopo aver scoperto che il giovane Mutt è il figlio che Marion gli ha sempre tenuto nascosto, ma sempre sotto una lettera scritta e mai ricevuta, e che la conoscenza deve assolutamente essere un rispetto per una cultura superiore che non sempre può essere concepita dall’arrivismo e dalla fantasia del genere umano. Indy e Marion riescono a convolare in quel matrimonio inseguito da troppo tempo, mentre il sorriso soddisfatto del "figliol prodigo" accompagna le note di una inedita marcia nuziale che porta la firma del motivo musicale di John Williams, mentre invitati e paganti del biglietto si alzano dai propri posti... soddisfatti e increduli di un forse inedito quinto episodio, "sempre che venga girato al più presto", come ha tenuto a sottolineare ironicamente Harrison Ford.