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Fondamentalismo, la parola del mese di Settembre

02/10/2008 9243 lettori
5 minuti

Perché la Francia viene accusata di perseguitare i musulmani se, a difesa della laicità repubblicana, impedisce al velo islamico (come a qualunque altro simbolo di ostentazione religiosa) il libero accesso nei pubblici luoghi di insegnamento? Perché mai la Turchia scivolerebbe sulla pericolosa china della iranizzazione se, in reazione al secolarismo intransigente dei militari, fedeli al laicismo “integrale” del padre Ataturk, decide finalmente di consentire alle studentesse universitarie di entrare in aula con il classico turban, non molto diverso da un semplice foulard? Perché, se si giudica inopportuna la menzione da parte del papa, all’università di Ratisbona (12 settembre 2006), del passo di un dialogo tra Manuele II Paleologo e un dotto persiano, si solleva un coro di vibranti proteste contro i soliti detrattori del cattolicesimo?

Sono portato a credere che una parte di responsabilità per tutto ciò sia da addebitare a una crisi dell’identità occidentale che non ha eguali nella recente storia europea, mascherata in molti casi da reazione alla rinascente paura del “barbaro”: soprattutto musulmano, ma non per questo necessariamente terrorista o fondamentalista. Che paventare lo “scontro di civiltà” –  come annunciare la “fine della storia” o la “morte della letteratura” – possa pure insinuare il sospetto del lancio di una frase a “presa rapida” sull’opinione pubblica perché venga battuta la grancassa mediatica, resta comunque la sensazione di un’Europa chiusa tra due fuochi: l’istigazione alla guerra santa contro i nuovi conquistatori cristiani e l’incitamento a reagire alla crociata “alla rovescia” intrapresa dall’invasore musulmano per impadronirsi del Vecchio Continente.

A un’Europa “superficiale” aperta al dialogo risponde sempre più un’Europa “profonda” che ne ha una oscura e irragionevole paura. Forse non del tutto immotiva se a spaventarla è la concreta prospettiva della realizzazione di un “ordine islamico mondiale”; in un futuro non molto lontano potrebbe innescare preoccupanti fenomeni di discriminazione e costringere le donne del vecchio continente a indossare il velo o infliggere loro la barbara pena dell’infibulazione, diffusa peraltro anche nell’Africa cristiana (e, per giunta, nemmeno menzionata nel Corano). La soluzione al problema, secondo alcuni, risiederebbe nel recupero degli ideali illuministici o nei principi di una “religione civile” consistenti – oltreché nella giusta salvaguardia dei diritti della persona – nella difesa della propria storia, memoria e identità e nel richiamo alle prerogative dello Stato sovrano e ai suoi valori costituzionali.

È arrivato il momento di rinunciare a dire sia “io” che “altro”. Si dovrebbe cominciare a dire che “io” è anche “altro” e “altro” è anche io; solo quell’anche può gettare un solido ponte tra le diverse identità, tra le diverse fedi, tra le diverse civiltà. Ha detto Hans Neuenfels, il regista della rivisitazione dell’Idomeneo di Mozart censurato preventivamente qualche tempo fa dalla berlinese Deutsche Oper: “Poiché milioni di morti sono da mettere sul conto dei conflitti di religione, abolire tutte le religioni può essere una misura propedeutica alla pace”. La frase, sebbene un po’ a effetto, rende bene l’idea dei pericoli sottesi all’esclusività dell’amore portato verso un solo dio dalle grandi religioni del pianeta: il cristianesimo, l’islamismo, l’ebraismo. Tutte tre fondate sul Libro, tutte e tre costrette in passato a fare i conti con la “tentazione fondamentalista” (Elie Barnavi).

Massimo Arcangeli