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Ipercomunicazione - la parola del mese di Ottobre

01/11/2008 9600 lettori
5 minuti
L’ipercomunicazione è la comunicazione affidata agli ipertesti. Questi ci raccontano sempre più di intrecci, ibridazioni e contaminazioni, palinsesti che si rincorrono, format che si ricalcano l’uno sull’altro, strutture del racconto e modalità e organizzazioni testuali che viaggiano di continuo da un genere all’altro, da un mezzo all’altro (valgano, a mo’ d’esempio, i tentativi di imitazione della doppia intervista lanciata dal programma televisivo Le iene, riadattata nei più diversi contesti). Non parlano più solo agli addetti ai lavori, perché chi li maneggia, chi ne sperimenta le anche assai complesse architetture, sa benissimo di avere a che fare non più con una semplice categoria del contenuto ma con la rappresentazione del mezzo con cui informazioni e dati, sempre più frequentemente, vengono trasmessi: il Web. In assenza del sapere reticolare irradiato lungo i fili della sua gigantesca “ragnatela” gli ipertesti sarebbero ben pallida cosa.
Ipercomunicazione e ipertestualità sono altrettante manifestazioni dell’“iperità”, due fra le tante possibili: l’ipermodernità della sociologia più consapevole, che la preferisce a postmodernità; l’iperletterarietà di certe scelte narrative, con le sue ricadute nei fatti di lingua e di stile; l’ipertelevisività di una tv pervasiva che tenta, non senza difficoltà, di rincorrere proprio l’ipertestualità; l’iperespressività dell’immagine pubblicitaria se non del testo verbale a commento, che oggi si tiene per lo più alla larga dai passati eccessi (soprattutto degli anni Sessanta e Settanta) salvo recuperare qualcosa con la sempre più massiccia infiltrazione dell’inglese.
Il futuro lontano della pubblicità viaggerà sempre più sul filo dell’ipercomunicazione, dell’iperità garantita e amplificata dalla Rete, che molti sperano possa davvero divenire il luogo di realizzazione di quella democrazia elettronica pronosticata o auspicata che sottragga il cittadino al nuovo regime imposto dalle “cattedrali del consumo”, i grandi, fagocitanti centri commerciali: spesso collocati ai margini degli agglomerati urbani, come un tempo le fabbriche, e sempre più luoghi di autentico “pellegrinaggio” nei quali consumare tutto il tempo disponibile a fare acquisti e senza mai realmente socializzare. Nuovi centri aggreganti di uno spazio comunitario garantito dai conflitti e igienizzato che, nella loro versione “integrata” e reticolare di piccole cittadelle (in molti casi tali anche nell’aspetto) nelle quali puoi ormai fare di tutto, appaiono essere il frutto di un nuovo ciclo produttivo; in quanto postmoderno, potremmo definirlo postproduttivo o, ricorrendo nuovamente alla categoria dell’iperità, iperproduttivo.
Un tempo si consumava quanto si produceva a caro prezzo (umano e sociale) nelle grandi fabbriche, oggi si produce invece a poco prezzo – in termini economici, magari con la delocalizzazione – quel che, prima ancora, si è provveduto a far sì che altri si sentano indotti a consumare. Il tempo libero che, non molti anni fa, si era pensato sarebbe stato speso quasi tutto in futuro in rilassanti attività ricreative, disinteressate e “gratuite”, si è trasformato per la maggior parte delle persone in tempo di altra, costosa produzione; che è come dire dalla padella della catena di montaggio alla brace della catena di consumo.
   Continuiamo pure a sgranare gli occhi, come stupefatti bambini, di fronte al rutilante spettacolo della pubblicità, ma non lasciamoci accecare dagli illusori splendori di una main promise che ha cessato di essere oggetto dei nostri sguardi e pretende di subentrare, dopo essersi impadronita del nostro punto di vista, alla nostra stessa vista. E per una pubblicità che aspira a diventare facoltà di vedere, un individuo che non sa né vuole reagire alla sua attuale condizione di bene di consumo: dall’iperità generale, che passa obbligatoriamente per l’ipercomunicazione, all’“ipoità” di identità e relazioni che si consumano rapidissimamente, in un ciclo produttivo parallelo di esistenze ed esperienze quasi usa-e-getta. Ma un mondo che arrivasse a ridursi ovunque così, che mondo sarebbe?