Essere giornalisti nella PA o diventarlo?
Anche se molti ritengono che la legge 150 abbia aperto gli enti pubblici ai mass media, in realtà, gli uffici stampa e i relativi addetti già erano attivi ed operavano per la realizzazione dei notiziari e soprattutto per i comunicati stampa degli enti pubblici.Di fatti secondo quanto era già stabilito dal decreto legislativo n. 29 del 1993 le amministrazioni pubbliche potevano dotarsi, anche in forma associata, di un ufficio stampa, la cui attività in via prioritaria, era indirizzata ai mezzi di informazione di massa.
Ma l’introduzione della legge 150 e il suo regolamento (D.P.R. 422/01) hanno definito meglio le funzioni di questi uffici e i titoli degli addetti stampa. Primo requisito fondamentale è che gli uffici stampa debbano essere costituiti da personale iscritto all'albo nazionale dei giornalisti. Tale dotazione può essere costituita da dipendenti delle amministrazioni pubbliche o da personale estraneo alla pubblica amministrazione in possesso dei titoli individuati appunto dal regolamento.
La legge 150, sancendo la presenza esclusiva dei giornalisti negli uffici stampa, dà vita ufficialmente e legalmente al giornalismo negli enti pubblici, e, per l’utilizzazione del personale che già operava negli uffici stampa, Province e Comuni (le Regioni sono escluse dall’obbligo per il principio dell’autogoverno insieme anche al Ministero degli Esteri) hanno previsto per i loro addetti stampa percorsi formativi adeguati.
Infine l’Ordine nazionale dei Giornalisti, con un apposita delibera ha dettato le regole per l’iscrizione all’albo dei pubblicisti per coloro che lavorano presso gli uffici stampa della PA riconoscendo autorevolezza alla Legge 150.
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Compito principale di un ufficio stampa è quello di trasmettere in modo chiaro semplice e moderno l’immagine aziendale e la sua mission.
È così anche per l’ufficio stampa di una pubblica amministrazione?
Lo chiediamo ad Enrico De Girolamo, giornalista professionista e responsabile a contratto dell’ufficio stampa della Provincia di Vibo Valentia.
«Innanzitutto dobbiamo intenderci sul significato di ufficio stampa “pubblico”. Anche quando l’attività di comunicazione è pienamente organica agli enti dotati di questo servizio, è sempre espressione dei vertici politici e amministrativi che si susseguono nel tempo. Inevitabilmente, quindi, l’ufficio stampa si fa interprete delle aspettative e delle esigenze informative del proprio “datore di lavoro”, né più né meno di quanto avviene in un’azienda privata. Va da se che questo sistema, per quanto coerente con le vecchie modalità di accesso all’attività di comunicazione pubblica, è altamente imperfetto: non è l’Ente a comunicare, ma chi in quel momento si trova alla barra di comando. Soltanto un alto grado di professionalità e il rispetto delle regole deontologiche, può consentire al giornalista di mediare tra “informativa” e informazione. Ma in fin dei conti questo è un problema che, più in generale, riguarda il giornalismo nel suo complesso e non soltanto gli uffici stampa».
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La nuova sensibilità delle pubbliche amministrazioni più vicine ai loro cittadini attraverso la comunicazione non nasce con la legge 150/00 ma dal 1990 , vale a dire da quando si parla di trasparenza dell’agire pubblico, di acceso agli atti istituzionali, di visibilità e fiducia, cosa cambia nel modo di fare informazione quando si lavora a servizio di un utente rispetto al giornalismo professionistico dei mass media?
«In linea di principio anche il lettore di un quotidiano o il telespettatore di un tg dovrebbe essere considerato utente. Ma molto più spesso viene invece identificato come cliente che acquista un prodotto alla stregua di qualsiasi altro bene di consumo. È possibile mutuare questo approccio nell’informazione della pubblica amministrazione? Ovviamente no, eppure è quello che nella maggioranza dei casi accade. Ecco perché, a mio parere, il merito principale della legge 150 è quello di aver individuato con chiarezza le tre figure professionali a cui è delegata la comunicazione dell’ente: addetto stampa, portavoce e urpista. Tre fonti che dovrebbero rimanere sempre separate per garantire maggiore obiettività e trasparenza».
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Negli uffici stampa della Pubblica amministrazione, meglio giornalisti professionisti, che posseggono l’esperienza del lavoro in redazione come te o è preferibile formare personale della pubblica amministrazione ad hoc?
«Ritengo che l’esperienza fatta in redazione aiuti moltissimo a comprendere appieno le esigenze dei colleghi a cui è destinato il tuo lavoro e, di conseguenza, accresca notevolmente i margini di successo: sai perfettamente cosa interessa, cosa sarà preso in considerazione e cosa, invece, immediatamente cestinato. Scrivere un comunicato stampa dopo che per anni sei stato dall’altra parte del fax alle prese con note inutilmente prolisse e ridondanti, dove la notizia, se c’è, è subdolamente nascosta nelle righe finali, dà un gran vantaggio e ti permette di avere in cambio un bel po’ di gratitudine».
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In un giornale il giornalista è responsabile per quel che scrive e per la testata per la quale lavora, in una Pubblica amministrazione oltre a questo, l’addetto stampa rappresenta l’amministrazione che governa ma ha anche l’obbligo di fare sempre una comunicazione che Stefano Rolando definisce di “pubblica utilità”, per evitare di cadere nell’autoreferenzialità. Come conciliare tutto questo?
«Un giornalista è sempre responsabile di quello che scrive, anche quando si muove dietro le quinte della Pubblica amministrazione. Chi crede di poter legittimamente rinunciare a questo imperativo professionale si riduce a fare il passacarte, aspirando forse ad un futuro da portaborse. Per quanto mi riguarda firmo tutti i comunicati che redigo e, come si dice, ci metto la faccia assumendomi la responsabilità della veridicità di quanto comunico, anche quando non ne condivido affatto i contenuti. Questo modus operandi aiuta a ridurre l’autoreferenzialità e ti obbliga a mantenere alto il livello di attenzione. Per il resto, quanto detto qualche domanda fa va bene anche in questa circostanza»
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Per un responsabile di un ufficio stampa è fondamentale gestire i rapporti con i giornalisti della carta stampata, delle emittenti radiotelevisive e oggi anche della comunicazione on line. Cosa suggerisci a chi si trova a dover partire con la gestione di un ufficio stampa?
«Organizzare il lavoro come quello di una piccola redazione, soprattutto quando si deve coordinare l’attività di altri colleghi, responsabilizzandoli su compiti precisi. In quest’ottica, è bene adottare regole grafiche e redazionali costanti nel tempo, che possano assicurare la massima fruibilità e l’immediata riconoscibilità della fonte. I comunicati devono essere scritti come se fossero destinati ad andare direttamente in pagina, con tutti i crismi di un articolo di giornale, compresa la titolazione: in questo modo si accresce in maniera esponenziale la possibilità che la comunicazione dell’ente giunga al lettore finale senza altre mediazioni, anzi, i colleghi vi saranno grati per non essere costretti a cucinare nuovamente quanto gli avete inviato. Tanto maggiore sarà la qualità giornalistica del prodotto finale, minore sarà il rischio che i contenuti delle note stampa vengano stravolti da redattori stanchi e vessati dalle urla del caposervizio che chiama la chiusura delle pagine. Meglio, quindi, essere sintetici (una o due cartelle al massimo), ma mai telegrafici, altrimenti costringete il collega di turno a ricamare e non è detto che gli venga bene.
Nelle relazioni con le varie testate il mio consiglio è di impostare i rapporti con equità, senza malcelate preferenze per una piuttosto che per l’altra, sebbene sia chiaro che una breve sul Corsera valga cento aperture sul giornale locale, ma è meglio non darlo a vedere. Non c’è niente che irriti di più i giornalisti che un collega “importante” che fa la primadonna, con l’addetto stampa in trepidante attesa, pronto a posticipare di mezzora in mezzora l’inizio della conferenza stampa aspettando che si presenti la star. Stesso discorso vale per le troupe televisive e per gli operatori di ripresa. Molti di loro hanno in tasca un tesserino da professionista, ma chissà perché c’è ancora chi li considera giornalisti di serie B, relegandoli in fondo al buffet del rinfresco».
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Cosa consiglieresti ad un giovane che aspira a diventare giornalista: corsi di studio idonei, come scienza delle comunicazioni o subito la redazione?
Oggi l’accesso alla professione giornalistica prescinde dalla formazione sul campo e da un approccio squisitamente empirico, come invece avveniva in passato, quando per cominciare bastava presentarsi in una redazione qualsiasi con tanta voglia di lavorare e poche pretese economiche. Le scuole di giornalismo riconosciute dall’Ordine nazionale ed i corsi di laurea in Scienze delle comunicazioni rappresentano senza dubbio il viatico migliore per approdare all’agognato tesserino professionale, anche in considerazione della deriva protezionistica che, in Italia, questa categoria continua a esprimere, nel vano tentativo di salvaguardare un anacronistico status sociale. Chi opera per limitare l’accesso alla professione giornalistica preferisce metterla sul piano della tutela del lettore e della verità, individuando nel giornalista “certificato” il baluardo professionale di un’informazione libera e certa. Ovviamente, come chiunque può verificare quotidianamente, si tratta solo di chiacchiere stantie buone per i talk show ed i salotti televisivi.
Il mutamento epocale innescato dalle nuove tecnologie, Internet su tutte, sta radicalmente cambiando il modo di fare giornalismo. Basti pensare alla rete dei blog dedicati all’informazione, che si alimentano e si accreditano a vicenda, linkandosi da un sito all’altro. Sta al lettore affinare la propria capacità di discernimento, senza subire passivamente la presunta autorevolezza dell’informazione classica a scapito di quella che ancora viene definita come controinformazione.
Per quanto mi riguarda, se oggi dovessi consigliare ad un giovane da che parte iniziare gli direi comunque di mettere in una cartellina i suoi pezzi migliori e cominciare a fare il giro di tutte le redazioni. Poi, una volta rodata la propria vocazione con qualche piccola collaborazione, intraprendere contestualmente un percorso universitario ad hoc. Il resto è rimesso alla fortuna e al talento personale. Raccomandazioni a parte, si intende.
Enrico De Girolamo, napoletano, 36 anni, da tempo vive e lavora in Calabria dove attualmente è capo ufficio stampa dell’Amministrazione provinciale di Vibo Valentia. Ha iniziato la sua attività giornalistica durante gli studi universitari in Giurisprudenza collaborando con numerose testate sino a diventare giornalista professionista nel 1998 dopo sette anni di intenso tirocinio nei giornali partenopei. Tra le principali testate per le quali ha lavorato, particolare rilevanza riveste la collaborazione con “Il Tempo”, per la quale ha curato, nell’ambito di un service giornalistico, la prima pagina dell’edizione napoletana con mansioni di capocronista. Fondamentale anche la sua esperienza nel maggiore quotidiano del Mezzogiorno, il Mattino, come redattore per circa un anno prima di trasferirsi in Calabria. Tra gli incarichi ricoperti, anche quello di caposervizio per Napoli Oggi, storica testata partenopea, nonché redattore del quotidiano il Mezzogiorno e del settimanale economico Il Denaro.