L’EFFIMERA MALEDIZIONE DI WILDE: DORIAN GRAY
Pareri discordi tra pubblico e critica sembrano voler decretare, con impietosa durezza, le sorti di un film impeccabile e senza deviazioni dal romanzo originale dello scrittore Oscar Wilde, come a voler sancire un patto col diavolo nel mantenere intatte le sorti dannate di un epilogo che naufraga inesorabilmente nella morte e nel dolore, scritte nel 1890 dallo scrittore ("The Picture of Dorian Gray", pubblicato sul Lippincott’s Monthly Magazine e riproposto un anno dopo con una prefazione dello stesso autore per scagionare l’opera da deviazioni amorali), e riportate sullo schermo da un regista che ha magistralmente immerso lo spettatore nella sofisticata atmosfera londinese di fine ottocento, culla letteraria di quella perdizione anti-vittoriana che ha regalato pagine di autentica devozione a un culto maledetto caro ad altri scrittori del genere, vedi lo stesso Bram Stocker e Robert Louis Stevenson nei rispettivi "Dracula" e "Dr. Jekyll & Mr. Hide". Il pregio di Parker risiede proprio nel mantenere saldo il legame dello stesso autore con il personaggio, feticcio abilmente confezionato nel film diretto da Brian Gilber, "Wilde", con Stephen Fry a vestire i panni dello scrittore inglese, nel ripercorrere la biografia della stessa vita romanzata. L’attore Ben Barnes, reduce da un più innocuo Caspian, sancisce il legame stesso con un valore caro agli estimatori della produzione letteraria di Oscar Wilde, nelle opere e nei suoi celebri aforismi, prestando la sua somiglianza fisica al culto più autentico dello stesso scrittore, da lui stesso espresso “Basil è ciò che penso di essere. Henry è ciò che il mondo pensa di me. Dorian è ciò che io vorrei essere”. Un’ alchimia di ruoli degnamente riproposti e interpretati, dallo stesso Colin Firth nel ruolo di Henry Wotton, il mentore di Dorian, affascinato dalla sua purezza morale e che, per soddisfare i privilegi della sua ingenuità e bellezza, lo introduce in un susseguirsi di esperienze che lo condannano alla degradazione morale di una coscienza specchiata nel ritratto eseguito dal pittore Basil Hallward (Ben Chaplin), “artefice” di quella maledizione che lo porta a debellare l’amore autentico della giovane 17enne Sibyl (Rachel HurdWood), nella paura di scoprire le ragioni di quel patto sancito con la devozione al piacere che sembra rinnegare lo stesso Dorian, in quell’atto estremo di allontanare l’amore della ragazza, disposta a tutto pur di proteggere il giovane dal suo conflitto interiore, concludendosi nel suicidio per entrambi. Qualche divagazione dal romanzo originale (la figlia di Wotton), non distolgono lo spettatore dal carisma letterario del romanzo più elogiato di Wilde, portato sullo schermo nella prima versione diretta da Albert Lewin ("The Picture of Dorian Gray" del ’45), riproposto da Will Self in una trasposizione moderna nella Londra degli anni ottanta, in "Dorian" e una incursione nel film di Stephen Norrington, "La leggenda degli Uomini Straordinari", oltre a varie trasposizioni musicali e teatrali, vedi l’ultima prodotta dall’italiano Tato Russo nel 2002 e replicata con successo per quattro anni. Un film, quindi, che non distoglie la trama dagli obblighi lasciati all’enfasi romanzata, vero elogio della bellezza e del sublime, lo stesso credo professato da Wilde nella vita reale, facendone, di Dorian Gray, la trasposizione più autentica e attendibile. Oliver Parker permettendo...