Bentornato. Accedi all'area riservata







Non ti ricordi i dati di accesso?Recupera i tuoi dati

Crea il tuo account

2 SHARES

Dorian Gray di Oliver Parker

10/12/2009 17712 lettori
3 minuti

Dorian Gray di Oliver Parker.

S’è rivoltato nella tomba, Oscar!

 

 

Toccatemi Shakespeare e Wilde, toccherete l’anima mia!

Premessa.

In una Londra plumbea di fine ‘800, riappare Dorian Gray (Ben Barnes), carino ma del tutto scevo dello spirito estetico-wildiano, un cucciolo spaurito, che guarda attorno a sé come un infante in piena scoperta intellettuale.

L’incontro con il pittore Basil (Ben Chaplin) lo porta a impersonare la musa ispiratrice di questi, ormai completamente coinvolto dalla bellezza del giovane. Ma ancor più travolgente sarà, quel giorno stesso, la conoscenza del poco cinico wildiano, ma ebbro di perversa coscienza di Lord Henry Wotton (Colin Firth).

E fin qui tutto procede, più o meno, in linea con il concetto essenziale del romanzo.

Ma ecco che inizia la cruda reminiscenza: l’incontro con Sybil Vane, impersonata dalla bellissima Rachel Hurd Wood, la prima notte d’amore (solo un casto bacio nel romanzo), la richesta di matrimonio vanificata dal Wotton con un’orgia serale che culmina con il suicidio di Sybil.

Da quel momento, inizia il meglio del peggio: Dorian incomincia ad assaporare i piaceri della lussuria ad ampio raggio (madre e figlia nella stessa stanza), bordelli che si succedono con fotoflash a sequela fra seni sventolati come fazzoletti, ansimi e gemiti che si contendono il primato, baci kavafisiani con Basil per poter scongiurare la messa in vista parigina del dipinto ormai corrotto: un’ovazione d’orrore s’innalza nella sala, nel momento in cui il pittore s’inginocchia mentre Dorian si sbottona la cerniera dei pantaloni!

Chino il capo sospirando fra me.

<Povero Oscar!>

Fine primo tempo. Giusto il tempo di un sospiro di sollievo che tutto rincomincia.

Dopo l’omicidio di Basil, un po’ troppo americano ma lontanissimo dal turpe stratagemma della “chimica soluzione finale”, Dorian fa un viaggio lungo di venticinque anni (sedici nel romanzo) e ricompare (per la seconda volta) negli ambienti aristocratici, ormai invecchiati, più giovane della prima volta. Gli astanti lo scrutano come se avessero davanti il dipinto di Basil, tentando di realizzarne la bellezza rimasta ancora così fresca e volitiva.

Si presenta una giovane che dice di chiamarsi Emily (Rebecca Hall), completamente incantata da lui e viceversa, e che tristemente scopre che è la figlia di Wotton (inesistente nel romanzo).

Ancora un’americanata: la morte accidentale di James Vane, fratello di Sybil, travolto dalla metropolitana, la passione che scoppia fra Dorian ed Emily, l’amaro risentimento che nasce in Wotton, consapevole d’aver creato un mostro e che, purtroppo, ne avrebbe pagata le conseguenze in prima persona.

Una notte d’amore, un po’ più romantica delle sue, il viaggio progettato fra i due che non inizia, perché Henry, attraverso una fotografia, realizza lo scambio venefico fra il dipinto e il giovane. Una lotta impari nella soffitta, dove era celato il dipinto, fra maestro e degno allievo, il fuoco che divampa mentre l’anima malefica di Dorian comincia (attraverso stupendi effetti speciali, l’unica attrattiva di tutto il film) una traslazione, è proprio il caso di dire, mostruosa. Alla fine, Dorian, ormai Cristo immolato, prende lo spiedino e la uccide.

L’anima, ovviamente. E tutto il film, anche.

 

Ho ancora davanti a me la visione dell’antica trasposizione del ’45, con un magnifico e perfetto wildiano George Sanders, che impersonò magistralmente Lord Henry Wotton recitando, sembrava di udire Oscar Wilde stesso, tutti gli aforismi dei quali il romanzo trabocca e che Colin Firth (non per colpa sua) si limita a tre o quattro citazioni fuggenti;

un esemplare di bellezza, anche lui in perfetto stile wildiano, di Hurd Hatfield che impersona Dorian;

uno ancor più stupendo dipinto;

una carina e delicata Sybil Vane, impersonata dalla grande Angela Lansbury (la mitica Jessica Fletcher del “La signora in giallo”) che le donò il Golden Globe come attrice non protagonista nel ’46, sommato all’oscar, nello stesso anno, per la fotografia.

Nonostante le digressioni cinematografiche, lo sceneggiatore e regista Albert Lewin, ripropose quasi perfettamente il pensiero estetico-decadente dello scrittore, quello stesso pensiero che coinvolse per tutta la sua eroica e artistica vita, il nostro grande Vate, Gabriele D’Annunzio.

E ch’è stato fuorviante e triviale nell’attuale trasposizione di Oliver Parker.

Alla luce di tutto ciò, posso solo concludere in perfetto stile manero:

L’hanno rivoltato nella tomba, Oscar!

Caliamo, pietosamente, il sipario.