Analfabetismo, la parola del mese di novembre
All’indomani della proclamazione del Regno d’Italia uno dei grandi problemi del paese era rappresentato dalla piaga dell’analfabetismo, di drammatica consistenza nel Meridione. Il secondo numero dell’“Annuario scientifico ed industriale”, pubblicato nel 1866, nel dar conto delle statistiche di una recente pubblicazione sullo «stato d’istruzione primaria nel 1863», non esita a definire “desolante” il loro esito: dei 21.777.334 cittadini italiani censiti nel 1861 sono 3.884.245 quelli che sanno leggere e scrivere, 893.388 quelli che sanno leggere, 16.999.701 quelli che non sanno né leggere né scrivere; relativamente al sesso, per un’età superiore ai 5 anni, si contano 1.260.640 donne contro 2.623.605 uomini per il primo gruppo, 508.995 donne contro 384.393 uomini per il secondo; con riferimento ai 14 “compartimenti” regionali, dal Nord al Sud della penisola, si va dal 57,23% di analfabetismo in Piemonte al 65.04% in Lombardia, al 71,91% in Liguria, all’85,19% in Emilia, all’86,05% in Toscana, alle percentuali superiori al 90% delle aree restanti: 90,34% nelle Marche, 90,82% in Campania, 92,02% in Sardegna, 92,13% in Umbria, 93,01% in Puglia, 93,56 in Abruzzi e Molise, 94,14% in Sicilia, 94,71% nelle Calabrie, 94,87% in Basilicata (Grispigni et. al., 1866, pp. 669-70). In coda la regione lucana, dunque, terra di pastori.
La distanza fra la situazione italiana di un secolo e mezzo fa e quella odierna, apparentemente, è incolmabile. Eppure l’analfabetismo, secondo molti, sarebbe tornato a incombere in nuove, insidiose forme “funzionali”. Sempre più chiamato in causa, non soltanto dai linguisti (come Tullio De Mauro) ma anche da psicologi, educatori, sociologi. Esemplari le mende di un tema, opera di uno studente del primo anno di un istituto tecnico industriale di Napoli, commentato in volume di Luca Serianni: sviluppo elementare della trama, niente più che una semplice elencazione dei compagni di classe; inserimento indebito o omissione dell’accento nei monosillabi («loro mi rispettano come io lì rispetto a loro»; «e come se ci fossero dei gruppi»; «gia lo conoscevo»); concrezioni («non lo mai apprezzato»); che polivalente di livello substandard («ci sono compagni che ho un bellissimo rapporto»; «è un ragazzo che non voglio proprio avere nessun rapporto»); grossolani errori di sintassi verbale («Io spero che non ci saranno più questi gruppi e che diventasse una classe come tutte le altre che non ci stesse odio e solamente che ci volessimo bene»); costrutti d’ascendenza regionale, come “rispettare a loro” del primo degli esempi qui riportati.