The Passion: ma quale horror! Bravo, Mel!
Se non è un capolavoro, poco ci manca: ho iniziato a pensarlo all’inizio, dopo le scene in cui il Cristo viene mostrato nell’orto del Getsemani intento a svegliare i propri discepoli e a resistere alle tentazioni di Satana, e ho continuato – seppur con qualche remora – a crederlo nel corso del film: "La Passione di Cristo" è la trasposizione cinematografica delle ultime 12 ore di un uomo chiamato Gesù. Una delle cose più belle della pellicola sono i flashback, soprattutto quelli che ci mostrano l’umanità, appunto, del Figlio di Dio: quando, piccolo, cade per terra e la madre-Madonna corre in suo soccorso (bellissimo l’accostamento con il momento in cui Gesù cade sotto la croce e Maria si precipita da lui) e quando, giovane falegname, scherza con la madre come un qualsiasi altro figlio farebbe con la propria genitrice.
Mel Gibson regista stupisce, e si fatica a pensare a lui come alla stessa persona che ha girato, in qualità di solo attore, pellicole del calibro di "What women want" e la saga di "Arma letale": per carità, film riusciti nel loro genere, ma decisamente di ben altra caratura, più leggera e disimpegnata, rispetto a quelli diretti da Mel. E "The passion", in tal senso, è solo l’ultimo esempio. Il film era partito come un flop annunciato, per via del suo essere fortemente sperimentale: scene dure, sanguinarie (mentre tutti i film sulla crocifissione di Gesù sono sempre stati – probabilmente, a questo punto, in maniera erronea – più "eterei", Pasolini compreso… ma lui non era cattolico fervente come Gibson, anzi!) unite alla scelta di far recitare gli attori in latino e aramaico, per calare maggiormente lo spettatore nel contesto storico della narrazione (idea geniale), e alla determinazione nel selezionare volti, prevalentemente italiani (Claudia Gerini, Sergio Rubini, Sabrina Impacciatore, Rosalinda Celentano, ecc…), poco noti al pubblico mondiale ma adattissimi, a livello di impatto "facciale", ai ruoli che dovevano interpretare.
A dispetto dei "gufi", e spinto sicuramente dalle accuse sia di eccessiva cruenza sia di antisemitismo, "La Passione di Cristo" sta battendo invece ogni possibile record: di questo passo, un Oscar non glielo leverà nessuno. È facile spiegare perché molti abbiano tacciato il film di violenza gratuita, autocompiacente e sostanzialmente priva di alcun messaggio: tanto dolore e tanta sofferenza fanno paura.
È atroce e fa venire voglia di urlare: "Basta!" l’interminabile sequenza in cui Gesù viene flagellato senza pietà fino a diventare un corpo rosso di sangue, e tutto ciò forse fa anche più impressione di quei primi piani sui chiodi che stanno per conficcarsi nelle sue mani. Il problema, però, è che un conto è sentir raccontare in Chiesa, senza potersene rendere effettivamente conto, ciò che gli uomini sono stati capaci di fare al Cristo e quanto si siano mostrati spietati verso di lui, e un altro è vederlo in concreto su uno schermo, seppur tenendo presente che l’americanata può essere sempre dietro l’angolo.
Non si può spiegare tanta crudeltà: nel film pure il Figlio di Dio ha avuto paura. È un film violento, ma giustamente: chi si scandalizza forse vuole rimuovere ciò che da sempre anche la nostra rassicurante religione cattolica tende a mettere in secondo piano, e cioè la Croce (con tutto ciò che è ad essa connesso). Troppo contro gli ebrei? "La Passione di Cristo" è, come ha sottolineato anche Claudia Gerini, molto più contro i romani, raffigurati come ubriachi, pazzi, prepotenti. Eppure, persino in un film così coraggioso si deve riscontrare un neo, relativo proprio agli ebrei; quando Pilato dice al popolo di giudicare da sé Gesù, esso risponde: "Il suo sangue ricada su di noi". Questa scena nel film non c’è perché Gibson, per quieto vivere, ha scelto di tagliarla. Errore più grande non poteva essere commesso: non si può parlare di antisemitismo se questa frase è stata storicamente pronunciata dagli stessi ebrei. Forse la violenza espressa nel tanto osannato "Schindler’s list" era meno scomoda da vedere, perché a favore della loro causa? No, ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Quella scena andava mantenuta, perché non era né discriminazione, né tantomeno offesa, ma solo cronaca.
Gibson avrà forse modificato, per esigenze di copione, qualche situazione (dov’è finito, per esempio, il gallo che canta dopo che Pietro ha rinnegato per tre volte Gesù?), tuttavia il senso di ciò che racconta è chiaro. Uscendo dalla sala, si è tutti più consapevoli di una cosa: l’umanità soffre così tanto a causa di fame, guerre, angherie varie perché è lo scotto minimo da pagare dopo quello che gli uomini – indipendentemente da differenze religiose o etniche o culturali – sono stati capaci di infliggere al Figlio di Dio.