Vergogna è una parola scomparsa…
Un raggio di sole passava attraverso la fessura del lucernaio di ponente e andava a impattare una delle lucide caraffe in rame, disposte sul desco approntato nell’ampia cantina di casa. Il riflesso esplodeva sulle sfaccettature prismatiche della martellatura e si diffondeva irradiandosi nell'ambiente. L'effetto destò dal torpore, quanti si attardavano, dopo aver gozzovigliato in quel meriggio campagnolo. Una grossa lepre, un bel fagiano e alcune quaglie, preda di caccia, erano stati i principali ingredienti dell'abbondante pasto preparato e insieme consumato da una dozzina d'amici. Similmente al riflesso ciascuno si mosse in cerca dell’uscita. Solo in pochi si continuò a restare seduti. Il sole cominciava a calare oltre la collina e in conseguenza scemava l'effetto scintillante nel locale. La luce più soffusa e spazi più ampi disponibili, dava agio a quanti ancora indugiavano attorno al tavolo. Una musica suadente in sottofondo, completava l'ambiente conciliante per un tranquillo dialogare.
Alle prime ci trovammo a scrutarci l'un l’altro senza proferir parola. Fu sufficiente un buon caffè preparato dalla signora di casa e il tentativo di interloquire di qualcuno, per ridare vigore, rompere quel silenzio e ricreare l'atmosfera conviviale. Seguirono amene discussioni tra chi interagiva con racconti quasi fantastici e chi faceva considerazioni sulla mera quotidianità: alla descrizione di un viaggio, conseguiva l'esperienza di un evento; a una remora per un'esitazione avuta, succedeva l'ostentazione di qualche particolare soggettivo, compensata, per altro, dall’acume di chi era lesto a dare lo spunto a vivaci immaginazioni e narrazioni suggestive. Poi fu sera: una riflessione sui propri impegni quotidiani, un doveroso pensiero all'indomani, un affettuoso saluto, la «buona notte» e, separatamente, il rientro alle proprie dimore.
Concordanza d’atteggiamenti e affetti positivi, continuavano a legarci l’un l’altro. Sentimenti d’amicizia[1] che risalgono alla verde età e al periodo scolastico. Un baleno, e poi tutto si dissolse. Il transito dal vestibolo, per il ritiro dei propri soprabiti cortesemente porti dall’ospite, era l’ultima liturgia di quel cerimoniale che i fumi dell’alcol facevano trasformare, abitualmente, ogni atto nel compimento di quelle indicative ricorrenze. Un’occhiata al firmamento, una carezza al fido volpino, che era stato destato dal transito chiassoso, richiusa la porta e dopo averla sprangata, lesto per una nottata di sonno. Rimani desto, e continui a rigirati nel letto senza poter prendere sonno. Non capita spesso, ma succede che stenti a dormire e allora rimugini sul consiglio della nonna: quanto possa veramente essere d'aiuto un bagno caldo, una tisana o una buona lettura prima di andare a letto.
Ci pensi e prendi il primo libro che ti capita e, manco a dirlo, ti trovi a leggere una pagina che ti appassiona: alcune righe che oppongono in modo suggestivo gli uomini di successo e i falliti. «Ormai tutto congiura a farci scegliere i primi come modello di creatività, mentre in realtà essi sono tali solo perché s’adeguano all’onda dominante e sanno blandire e dire quelle cose che la massa vuole sentirsi dire. Il fallito è, invece, spesso chi ha voluto tentare strade nuove, è stato coerente con se stesso, non ha compiuto scelte solo motivate da calcolo e da vantaggi immediati. Ha fatto fiorire quell’uomo inedito che non è ancora apparso ma che è dentro le grandi e infinite possibilità dell’umanità. Certo, non si parla dei falliti per inerzia o stupidità, ma di quegli uomini liberi, puri e creativi che il mondo rigetta perché inquietano e sconvolgono i luoghi comuni e la banalità».
Gli uomini di successo sono uomini un po’ pericolosi, perché ratificano la cultura esistente, sono il suo prodotto e la sua legittimazione. I falliti sono spesso ricchi di umanità, perché hanno tentato di superare il sistema, di far fiorire l’uomo inedito che è l’insieme delle possibilità che ognuno di noi ha in sé. Incuriosisce l’affettazione con cui si argomenta nelle discussioni dell’amicizia essere virtù o strettamente congiunta con la virtù.
Secondo Aristotele comunque è ciò che c’è di più necessario alla vita, giacché i beni che la vita offre, come la ricchezza, il potere, ecc…non si possono né conservare né adoperar bene senza gli amici. La massima aristotelica dell’Amicizia «comportarsi verso l’amico come verso se stesso». Scriveva il celebre architetto quattrocentesco Leon Battista Alberti «solo è senza virtù chi non la vuole». Tratta dall’opera De beneficiis: «la virtù non è frutto di una cultura, non è appannaggio di uno stato sociale, non è privilegio di classe». Il cinese Confucio non esitava ad ammonire che «belle parole e un aspetto insinuante sono raramente associati con l’autentica virtù».
[1] L’Amicizia secondo Aristotele è, o una virtù o strettamente congiunta con la virtù: comunque è ciò che c’è di più necessario alla vita, giacché i beni che la vita offre, come la ricchezza, il potere,ecc…non si possono né conservare né adoperar bene senza gli amici. La massima aristotelica dell’Amicizia “comportarsi verso l’amico come verso se stesso”