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Rivive il mito dei Take That

27/06/2006 14246 lettori
4 minuti

Sono stati la prima boyband. Si deve a loro la “colpa” dell’arrivo, tra la fine del ventesimo secolo e l’inizio del terzo millennio, di un periodo che per qualche anno colonizzò letteralmente gli spazi musicali al ritmo di un pop insulso e basato, fondamentalmente, sull’immagine. Perché i Take That, lo dice un ex quindicenne che era costretto, suo malgrado, ad osservare il fenomeno vivendolo di luce riflessa attraverso le proprie coetanee, erano soprattutto quello: immagine. Loro stessi hanno ammesso che non solo il progetto era palesemente costruito a tavolino, ma anche che le coreografie e il look avevano una grande importanza nel contesto generale. Backstreet Boys, Five e compagnia cantante hanno preso esempio proprio dai Take That.

Non c’è dubbio che 10 anni fa Robbie Williams e soci furono un grosso caso mediatico e di costume, con fan in delirio e scene di divismo ed isteria collettiva. Più di 25 milioni di copie dei loro cd vendute in tutto il mondo non sono bruscolini, e di questo sfavillante consenso di pubblico va dato loro atto: dopo i Beatles, i Take That sono stati la pop band inglese di maggior successo, tanto che così come i quattro baronetti erano chiamati i “Fab Four”, allo stesso modo i Take That sono stati definiti, con un paragone esagerato, i “Fab Five”. Ora, lanciati da un tour che a sorpresa è andato molto bene, i 4 superstiti preparano un nuovo album, che uscirà per la Polydor sotto Natale, con la novità dei testi che stavolta saranno scritti da tutti, non solo da Gary Barlow.

Nell’attesa, è uscito “For the record”, un dvd che contiene nuove interviste con i cinque membri originali e immagini girate on the road. Messo da parte l’aspetto legato ai Take That come vero e proprio “fenomeno sociale”, va detto che vedere questo dvd fa riflettere non tanto sulla qualità musicale del gruppo, quanto sulla sua vicenda umana: vengono svelati retroscena che magari uno non poteva immaginare. Come quando Howard Donald, deciso lo scioglimento della band, voleva uccidersi buttandosi nel Tamigi: il sapore del successo, si sa, è inebriante, e il doverci rinunciare può portare alla depressione. Si percepisce, dalle parole dei cinque, che alcune tensioni e alcuni rancori, specie nei confronti di Robbie Williams, sono tutt’altro che sopiti: si capisce che, sotto sotto, Gary Barlow ha sofferto di non essere mai diventato ciò che invece, in veste solista, è diventato Williams, e anche se oggi lo scopriamo felicemente sposato e con due figli, e tutt’altro che lontano dal mondo della musica (si è dato alla produzione ed è ancora attivo come autore), è evidente che gli sarebbe piaciuto avere maggiore successo anche dopo la fine dei Take That, proprio come invece è capitato a Robbie.

D’altronde, sembrava sarebbe andata così: Williams era lo sbandato, il “drogato” del gruppo… cosa poteva combinare di positivo? Barlow, invece, era la mente creativa, colui che aveva sempre mandato avanti la baracca dal punto di vista artistico. Non era forse per questo motivo che Nigel Martin Smith, il manager della band, lo aveva scelto? Se Jason Orange e Howard Donald erano stati selezionati per le loro doti di ballerini, non si poteva certo dire lo stesso per il buon Gary, grassoccio e oltretutto pure malvestito: no, Barlow fu inserito nel quintetto perché dotato di una bella voce e di un’altrettanto buona vena compositiva. I fatti, però, hanno dato ragione all’essere istrionico di Robbie Williams, e Gary Barlow è rimasto vittima del suo essere – a livello di immagine e, forse, anche a livello musicale – un po’ “noioso”. Il discorso dei rancori vale anche per Williams e Orange nei confronti di Smith, reo di essere stato troppo duro e severo verso di loro. Insomma, tanto impegno per raggiungere un successo che fu stratosferico, ma al tempo stesso anche tanto sacrificio, specialmente dal punto di vista dei rapporti interpersonali.

Per il resto, la vita dei Take That fu, per loro stessa ammissione, tutta rose e fiori: cibo di prima categoria, alberghi di lusso, serviti e riveriti ovunque andassero. E poi gli scherzi, il casino, il gusto di bere insieme: insomma, questi ragazzi, che erano stati accorpati senza nemmeno conoscersi, andarono d’accordo, almeno per un po’. Almeno fino a quando Robbie Williams non decise di andarsene. E qui iniziò il declino. Ecco perché adesso le riflessioni che si fanno vedendo questo documentario sono due: la prima, che il tempo passa inesorabilmente per tutti, e anche questi ragazzi, all’epoca poco più che ventenni, in questi due lustri hanno continuato a vivere, e oggi ce li ritroviamo uomini di 35 anni, qualcuno di loro con famiglia, che forse nella maggior parte dei casi vivono di rendita, ma che fondamentalmente si perdono nei ricordi; la seconda, che la nostalgia, mista magari alla voglia di riguadagnare qualche soldo (solo il tour di qualche mese fa ha fruttato loro un milione di sterline a testa) e, perché no, ad una piccola invidia nei confronti del loro ex compagno Robbie, li ha portati a cavalcare l’onda del revival – come già hanno fatto i Duran Duran e come, per restare in tema di band anni ’90, si apprestano a fare anche le Spice Girls – tentando la carta della reunion. Insomma, i Take That sono tornati, o almeno così pare. Questo dvd è utilissimo per non farsi trovare impreparati all’appuntamento.

Massimo Giuliano
Massimo Giuliano

Ho collaborato con varie testate cartacee, tra cui Il Tempo e Intercity. La musica è il mio interesse principale: ho recensito cd e concerti per vari siti Internet (NotizieNazionali.net, L'isola che non c'era, Musicalnews.com) mentre oggi sono redattore di IlPescara.it, gruppo editoriale Citynews-Today. Mi sono occupato per anni anche di uffici stampa e comunicazione, collaborando inoltre da esterno con agenzie ed emittenti tv per realizzare servizi ad hoc.