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Plinio? Un comasco di Napoli

01/02/2010 8101 lettori
5 minuti

Una famiglia dalle risorse umane e finanziarie veramente rilevanti, con un patrimonio davvero ingente di case e terreni in ogni angolo d’Italia e tale da autorizzarne ogni munifico investimento nei confronti dei concittadini sotto forma di dono di una biblioteca e di uno stabilimento termale. Cose note, queste. Ma ciò che è meno noto, almeno ai più, è la sorte strana e singolare toccatale. Quella di ritrovarsi la Campania nel suo destino e forse nel suo stesso Dna: da lì, infatti, probabilmente proveniva (…) Singolare destino, si diceva all’inizio: morire in quelle stesse plaghe in cui vanno probabilmente ricercate le radici stesse della sua famiglia, se è possibile che provenisse da quella Campania da dove Giulio Cesare poco più di un secolo prima nel 59 a.C. aveva trapiantato sulle rive del Lario una nutrita schiera di coloni campani, destinati a popolare la città da poco fondata…

 
Eh no! «Capa tosta» direbbe Plinio. In un certo qual modo lo dice anche un articolo sull’Ordine (Furto di Antenati - Pg5 31/1/2010): «Como fu colonizzata da terroni. È storia accettiamolo senza vergogna: rifiutarla sarebbe provinciale e perdente». È bene allora fare alcune precisazioni.

·          Da tutte le locandine turistiche viene pubblicizzato che Giulio Cesare fonda nella convalle l’attuale città di Como… Pompeo Strabone la eresse in municipio; Scipione vi pose 3,000 abitanti, e Cesare adornatala, la popolò di ben 3,000 coloni, fra cui 500 nobili greci.

 ·          È il Prof. GIORGIO LURASCHI che risolve la traduzione dal Greco di nobili in distinti – in quanto seppero assolvere egregiamente il loro com­pito - per poi puntualizzare: Sia­mo nel 59 a.C. una legge (Vatinia) autorizza Cesare a fondare una colo­nia a Como ed a condurvi 5.000 uo­mini. Fin qui, tutto normale. La no­vità sta nel fatto che noi sappiamo dal geografo greco Strabone, che fra i coloni vi erano anche 500 Greci, ai qua­li, fra l'altro, si deve il nome della città, «Novum Comum». Chi erano costoro? Da dove venivano? Cosa ci facevano sul Lario? Cicerone ci dà le prime due risposte, narrandoci la vicenda di uno di loro. Si chiamava Caius Avianius Philoxenus, era un Greco di Sicilia, la sua patria era Ca­lacte, sulla costa settentrionale dell'isola, ad est di Halesa, dove oggi è il borgo di Caronia.

 ·          Ed infine il terzo quesito: perché Cesare li portò a Como? Le fonti non lo dicono, ma lo possiamo immagi­nare: di essi aveva un gran bisogno per realizzare alcuni progetti che ri­chiedevano ben precise qualità tecni­che e imprenditoriali. Si trattò, dunque, di un’immigrazione non selvaggia, casuale e demago­gica (come lo sono quelle dell'epoca nostra), ma altamente qualificata, che Cesare intendeva sfruttare almeno per due intraprese, che gli stavano molto a cuore e che propizieranno le fortune di Como fino alle soglie dell'età moderna se non oltre. La prima era la frequentazione e la colonizzazione del Lario, fino allora quasi spopolato e pochissimo praticato, ed il suo uti­lizzo quale via di comunicazione pri­vilegiata in previsione di un’estensione dei commerci verso le terre d'Oltralpe. Per farlo occorrevano le straordinarie doti di navarchi di quel manipolo di Siculi, i quali lasciarono una traccia significativa del loro pas­saggio e della loro perizia nautica: il nome e la forma della nostra barca più bella e più celebre, il comballo, che deriva dal greco «kumbalion», che vuol dire navicella, e forse anche il termine «naul», dal greco «naulon», per indicare il noleggio.
 

 Tornando a Plinio Secondo, detto «il Vecchio»: Finisce così, nella testimonianza del nipote, la vita di un autentico martire della scienza, asfissiato dai venefici miasmi e dalle ceneri dello stesso «sterminator Vesevo», che 1800 anni dopo suggerirà a Leopardi amare considerazioni sulla condizione umana e sull’amore della Natura per il genere umano.Ad avvalorare questa ipotesi, potrebbe giovare una risultanza toponomastica, il nome cioè di un antico paesino, in cui non si fa fatica a riconoscere etimologicamente proprio il nome di Plinio. Il paese, che conta poco meno di 1000 abitanti, si chiama Prignano, in provincia di Salerno, posto sui primi contrafforti collinari del Cilento, da dove si guarda sulla piana incantata di Paestum e il mare azzurrissimo da un lato del golfo di Salerno e dall’altro del promontorio di Agropoli. Ebbene, se si dà retta a una non peregrina interpretazione, che lo farebbe derivare da «plinianum» (praedium, «fondo, podere»), Prignano recherebbe dunque nel suo etimo un segno di appartenenza e di eccellenza di cui vantarsi, collegandosi al fatto che proprio lì, di fronte ai templi più spettacolari della Magna Grecia e poco lontano dalla Velia/Elea di Parmenide e della Scuola Eleatica, Plinio avrebbe, se non anche tratto la sua origine, almeno posseduto un fondo o una villa (e dato il riconosciuto buongusto del personaggio c’è da crederci seriamente), la cui ubicazione mai è stata finora rintracciata ma di cui qualche vestigio prima o poi dovrebbe pur apparire assieme ai tanti altri oggetti fin qui affiorati (per lo più vasellame e monete, pietre scalpellate e connesse senza malta di calce, rottami di bronzo e altro metallo, cocci di terracotta). Ipotesi, nient’altro che ipotesi e fantasie, certo, allo stato dei fatti.

 Venendo ai giorni nostri in tanti si reputa, di un altro salernitano, l'azione di erudito curatore, forse impareggiabile, di Grandi mostre, che continua a sbaragliare con le sue esperienze espositive di successo ormai dal 2004; tutti gli anni. Spropositato? Ma lui è «giovane».
Salvatore Pipero
Salvatore Pipero

Un processo formativo non casuale, veniva accompagnato dalla strada, quasi unico indirizzo per quei tempi dell’immediato dopo guerra; era la strada adibita ai giochi, che diventava con il formarsi, anche contributo e stimolo alla crescita: “Farai strada nella vita”, era solito sentir dire ad ogni buona azione completata.  Era l’inizio degli anni cinquanta del ‘900, finita la terza media a tredici anni lasciavo la Sicilia per il “continente”: lascio la strada per l’”autostrada” percorrendola a tappe fino ai ventitre anni. Alterne venture mi portano al primo impiego in una Compagnie Italiane di Montaggi Industriali.



Autodidatta, in mancanza di studi regolari cerco di ampliare la cultura necessaria: “Farai strada nella vita” mi riecheggia alle orecchie, mentre alle buone azioni si aggiungono le “buone pratiche”.  Nello svolgimento della gestione di cantieri, prevalentemente con una delle più importanti Compagnie Italiane di Montaggi Industriali, ho potuto valutare accuratamente l’importanza di valorizzare ed organizzare il patrimonio di conoscenze ed esperienze, cioè il valore del capitale intellettuale dell’azienda.



Una conduzione con cura di tutte le fasi di pianificazione, controllo ed esecuzione in cantiere, richiede particolare importanza al rispetto delle normative vigenti in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro e sulla corretta esecuzione delle opere seguendo le normative del caso. L’opportunità di aver potuto operare per committenti prestigiosi a livello mondiale nel campo della siderurgia dell’energia e della petrolchimica ha consentito la sintesi del miglior sviluppo tecnico/operativo. Il sapere di “milioni di intelligenze umane” è sempre al lavoro, si smaterializza passando dal testo stampato alla rete, si amplifica per la sua caratteristica di editabilità, si distribuisce di computer in computer attraverso le fibre.



Trovo tutto sommato interessante ed in un certo qual modo distensivo adoprarmi e, per quanto possibile, essere tra coloro i quali mostrano ottimismo nel sostenere che impareremo a costruire una conoscenza nuova, non totalitaria, dove la libertà di navigazione, di scrittura, di lettura e di selezione dell’individuo o del piccolo gruppo sarà fondamenta della conoscenza, dove per creare un nostro punto di vista, un nostro sapere, avremo bisogno inevitabilmente della conoscenza dell’altro, dove il singolo sarà liberamente e consapevolmente parte di un tutto.