Plinio? Un comasco di Napoli
Una famiglia dalle risorse umane e finanziarie veramente rilevanti, con un patrimonio davvero ingente di case e terreni in ogni angolo d’Italia e tale da autorizzarne ogni munifico investimento nei confronti dei concittadini sotto forma di dono di una biblioteca e di uno stabilimento termale. Cose note, queste. Ma ciò che è meno noto, almeno ai più, è la sorte strana e singolare toccatale. Quella di ritrovarsi la Campania nel suo destino e forse nel suo stesso Dna: da lì, infatti, probabilmente proveniva (…) Singolare destino, si diceva all’inizio: morire in quelle stesse plaghe in cui vanno probabilmente ricercate le radici stesse della sua famiglia, se è possibile che provenisse da quella Campania da dove Giulio Cesare poco più di un secolo prima nel 59 a.C. aveva trapiantato sulle rive del Lario una nutrita schiera di coloni campani, destinati a popolare la città da poco fondata…
· Da tutte le locandine turistiche viene pubblicizzato che Giulio Cesare fonda nella convalle l’attuale città di Como… Pompeo Strabone la eresse in municipio; Scipione vi pose 3,000 abitanti, e Cesare adornatala, la popolò di ben 3,000 coloni, fra cui 500 nobili greci.
· È il Prof. GIORGIO LURASCHI che risolve la traduzione dal Greco di nobili in distinti – in quanto seppero assolvere egregiamente il loro compito - per poi puntualizzare: Siamo nel 59 a.C. una legge (Vatinia) autorizza Cesare a fondare una colonia a Como ed a condurvi 5.000 uomini. Fin qui, tutto normale. La novità sta nel fatto che noi sappiamo dal geografo greco Strabone, che fra i coloni vi erano anche 500 Greci, ai quali, fra l'altro, si deve il nome della città, «Novum Comum». Chi erano costoro? Da dove venivano? Cosa ci facevano sul Lario? Cicerone ci dà le prime due risposte, narrandoci la vicenda di uno di loro. Si chiamava Caius Avianius Philoxenus, era un Greco di Sicilia, la sua patria era Calacte, sulla costa settentrionale dell'isola, ad est di Halesa, dove oggi è il borgo di Caronia.
Tornando a Plinio Secondo, detto «il Vecchio»: Finisce così, nella testimonianza del nipote, la vita di un autentico martire della scienza, asfissiato dai venefici miasmi e dalle ceneri dello stesso «sterminator Vesevo», che 1800 anni dopo suggerirà a Leopardi amare considerazioni sulla condizione umana e sull’amore della Natura per il genere umano.Ad avvalorare questa ipotesi, potrebbe giovare una risultanza toponomastica, il nome cioè di un antico paesino, in cui non si fa fatica a riconoscere etimologicamente proprio il nome di Plinio. Il paese, che conta poco meno di 1000 abitanti, si chiama Prignano, in provincia di Salerno, posto sui primi contrafforti collinari del Cilento, da dove si guarda sulla piana incantata di Paestum e il mare azzurrissimo da un lato del golfo di Salerno e dall’altro del promontorio di Agropoli. Ebbene, se si dà retta a una non peregrina interpretazione, che lo farebbe derivare da «plinianum» (praedium, «fondo, podere»), Prignano recherebbe dunque nel suo etimo un segno di appartenenza e di eccellenza di cui vantarsi, collegandosi al fatto che proprio lì, di fronte ai templi più spettacolari della Magna Grecia e poco lontano dalla Velia/Elea di Parmenide e della Scuola Eleatica, Plinio avrebbe, se non anche tratto la sua origine, almeno posseduto un fondo o una villa (e dato il riconosciuto buongusto del personaggio c’è da crederci seriamente), la cui ubicazione mai è stata finora rintracciata ma di cui qualche vestigio prima o poi dovrebbe pur apparire assieme ai tanti altri oggetti fin qui affiorati (per lo più vasellame e monete, pietre scalpellate e connesse senza malta di calce, rottami di bronzo e altro metallo, cocci di terracotta). Ipotesi, nient’altro che ipotesi e fantasie, certo, allo stato dei fatti.