5 - Design dell'interazione: Cosa vogliono gli utenti: l’approccio di Alan Cooper, il design centrato sugli obiettivi
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Cosa vogliono gli utenti: l’approccio di Alan Cooper, il design centrato sugli obiettivi
Non è la tecnologia, ma i tecnici e le loro procedure che creano prodotti che non sono a misura d’uomo. […] [1]
Come fa notare Raskin, la tecnologia è plasmabile e modellabile a piacimento del progetto e sono i progettisti a dover comprendere e conoscere a fondo l’uomo, per potergli offrire i migliori strumenti possibili. Progettare un artefatto tecnologico, come abbiamo visto fin ora, presuppone una conoscenza del sistema e dell’utente. L’approccio di Raskin e di Cooper invece sposta l’enfasi concentrandosi soprattutto sulle attività umane, quelle che l’uomo può e sa fare e, partendo da queste considerazione, pone le basi per una progettazione centrata sugli obiettivi.
Cooper ha messo a punto, per questo approccio, tre strumenti fondamentali:
1) Progettare per la gratificazione;
2) Progettare per l’efficienza;
3) Progettare per la gente
Cosa significa progettare per la gratificazione?
Formulare una precisa descrizione dell’utente e di cosa desidera ottenere. La gratificazione dell’utente è qualcosa di diverso rispetto all’usabilità, o al raggiugimento degli obiettivi: la gratificazione presuppone che l’utente oltre a compiere il proprio compito, lo faccia senza sentirsi frustrato o stupido nei confronti della tecnologia; la gratificazione è l’obiettivo del progettista di artefatti: quando compro un’auto sportiva devo, la velocità, la maneggevolezza, il confort e a fluidità della guida sono tutti elementi che influiscono sulla mia gratificazione. Per poterlo fare bisogna quindi cercare l’utente che userà l’auto o l’artefatto cognitivio. Cercare l’utente significa imparare a conoscere chi utilizzerà l’artefatto ma, secondo Cooper, non si deve confidare troppo sulle capacità dell’utente nel riconoscere e risolvere il proprio problema[2], infatti: essere afflitti da un problema non rende automaticamente in grado di trovare una soluzione[3].
Come propone Cooper di superare questo gap?
Il metodo che funziona davvero suona un po’ banale ma ogni volta che viene applicato si rivela estremamente potente ed efficace. Si tratta di inventare finti utenti e di progettare per loro[4].
I personaggi
I personaggi non sono persone reali ma rappresentazioni degli stessi. Sono archetipi ipotetici.
L’operazione consiste nell’individuare dei personaggi tipo, a partire dagli obiettivo che ognuno vorrebbe che il sistema svolgesse.
Anche questo sistema è iterativo ed è simile a quello adoperato dagli ingegneri del software nel processo di implementazione. Ne differisce per il tipo di sviluppo: il software prevede l’implementazione del processo, il design quello di appunti e bozze.
Per creare un prodotto che soddisfi un largo pubblico la logica suggerirebbe di rendere disponibile una gamma delle funzioni quanto più ampia possibile. Cooper a tal proposito fa l’esempio della definizione degli obiettivi di un’auto che soddisfi tutti gli utenti. La mamma vorrebbe una vettura comoda, con un ampio bagagliaio, per poter salire e scendere comodamente e depositare le buste della spesa con facilità. Il papà vorrebbe un furgoncino per potervi caricare sopra gli attrezzi da caccia, da pesca o da lavoro. Il figlio vorrebbe una vettura sportiva, veloce e scattante. Quello che uscirebbe fuori è un ibrido che non userebbe nessuno dei tre.
Come si può ben percepire da questo semplice esempio, progettare un artefatto che soddisfi i requisiti di tutti gli utenti diventa impossibile se non deleterio. Certo gli artefatti tecnologici potrebbero incarnare diverse personalità ed adattarsi al singolo utente che lo sta adoperando in quel preciso momento. Questa scelta però deve essere ben calibrata, perché è valido se l’adattabilità dell’artefatto non ricade sulle spalle dell’utente, allora è un buon affare[5], altrimenti come vedremo in seguito, è preferibile soddisfare le richieste degli altri utenti con altri artefatti.
Cooper quindi propone di progettare per un individuo specifico. Tanto specifico che il metodo prevede che il personaggio abbia un nome e un cognome, delle caratteristiche specifiche, ruoli, attività e soprattutto compiti da svolgere.
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Per comunitàzione ad esempio, il cast dei personaggi è composto da:
a) Francesca è una studentessa di Scienze della Comunicazione che utilizza l’internet per approfondire gli argomenti trattati dalle discipline che sta studiando. Il suo approccio è classico: usa come home page google e da lì inizia la sua navigazione. Il suo obiettivo è reperire quante più informazioni possibile, e il più dettagliato possibile, che l’aiutino a superare brillantemente l’esame;
b) Chiara è una ricercatrice universitaria; il suo obiettivo è pubblicare e discutere con i suoi pari le ricerche che sta effettuando nel campo del marketing esperenziale. Il suo approccio all’internet è fortemente indirizzato verso il dialogo con gli altri, per un confronto diretto. Tipicamente anche lei ha impostata come home page google, ma conosce bene i siti web dove le è possibile pubblicare le ricerche, e conosce bene gli strumenti messi a disposizione dall’internet.
c) Sara è un content manager. Il suo obiettivo è quello di raccogliere le ricerche pubblicate da Chiara su un sito web per renderle fruibili a Chiara e a Francesca.
Progettare per l’efficienza: gli obiettivi
La qualità del design non è più una questione di opinione, ma di analisi sistematica. Alla luce degli obiettivi di un utente, possiamocapire direttamente quale tipo di design sia più adatto per un certo scopo, a prescindere dalle opinioni altrui o dalle qualità estetiche.
Un buon design dell’interazione ha senso solo a condizione che una persona lo usi veramente per un suo scopo. Cioè il centro del processo di design dell’interazione è progettare il modo in cui l’utente raggiunge il suo scopo. Con questa affermazione non si vuole sminuire il processo di design centrato sull’utente, ma si vuole solo ribadire che la centralità è dell’utente solo in quanto egli deve raggiungere uno scopo. Non quindi di un utente generico, ma un utente ben delineato che deve raggiungere un determinato scopo: le auto vengono progettate in questo modo. L’obiettivo del carpentiere è poter trasportare facilmente calcestruzzi ed attrezzi? Per lui progetteremo un pick-up. Lo scopo della mamma è avere facilità di accesso per lei e i figli? Progettiamo i monovolume. Lo scopo di un manager è apparire?
Certo, stiamo ipersemplificando il discorso tralasciando gli aspetti ludici, di appartenenza, di consumo del significato… ma come dice lo stesso Giampaolo Fabris[6]:
ai vecchi status si sono sostituiti beni e prodotti che qualificano non in termini di ricchezza o prestigio ma di attualità culturale. Scelte di consumo cioè che non segnalano la condivisione dello spirito del tempo. […] La scelta dell’eccellenza quindi per sé, per vivere meglio, per soddisfare più compiutamente i propri bisogni.
Fabris parla del consumatore, quindi parla anche dell’utente perché l’utente è sempre un consumatore: di beni, ma anche di artefatti cognitivi, culturali, organizzativi. Quindi l’analisi di Fabris ci sembra davvero molto interessante a questo punto del discorso. Per analizzare gli obiettivi degli utenti e sottolineare che semmai c’è stato il consumo di artefatti solo per ragioni di status, oggi la tendenza sta cambiando. Lo spirito del tempo[7] non più finalizzato ai grandi sistemi, cioè rivolto lontano ma centrato sul quotidiano, sull’hic et nunc. L’utente si riappropria del tempo e dello spazio, e con esso si riappropria dei modi. Non gli interessa solo avere l’artefatto, gli interessa ancora di più che l’artefatto lo aiuti nei compiti quotidiani[8].
E ancora: spostando la prospettiva di analisi da “cosa la pubblicità da al consumatore a “cosa il consumatore fa della pubblicità[9]” che potrebbe essere parafrasata, nel caso del design dell’interazione con: non cosa il prodotto da all’utente, ma cosa l’utente ne fa del prodotto. Questo è l’oggetto di studio dell’interaction design(!). Come l’utente usa l’artefatto? Per raggiungere quali scopi?
L’utente e gli scopi diventano il centro della nostra analisi: se precedentemente ci siamo occupati degli utenti adesso analizziamo i suoi scopi.
Per una progettazione orientata all’efficienza, è utile a questo punto ragionare sugli obiettivi personali degli utenti:
non sentirsi stupido;
non fare errori;
svolgere una quantità di lavoro adeguata;
divertirsi (o almeno non annoiarsi)[10].
Questa identificazione ci è utile perché possiamo capire meglio come dovrebbe comportarsi un artefatto per aiutare l’utente nello svolgimento dei propri compiti. In effetti gli obiettivi personali sono sempre concreti e agiscono in modo diverso sulle singole persone. Hanno comunque la precedenza su ogni altro obiettivo, anche se raramente vengono presi in considerazione dai progettisti, che li sottovalutano quando non li calpestano. Cooper (1999) in effetti afferma:
Quando un utente si sente stupido usando un software la sua autostima finisce sotto i tacchi e la sua capacità operativa si azzera a prescindere dalla raggiungibilità degli altri obiettivi.
Cooper, a tal proposito suggerisce di creare del software gentile. Elenca le caratteristiche del software gentile, che qui tratteremo se pur velocemente.
Il software gentile si interessa a me:
gli artefatti tecnologici spesso vengono usati solo da una persona (il telefonino per esempio) altre volte da più persone (un computer dell’ufficio) anche se è dimostrato che tutti vogliono dagli altri che l’artefatto diventi il più personale possibile[11]. Quindi è normale che un artefatto, ma ancor di più un software trascorra la maggior parte del suo tempo[12] con l’utente, ma nonostante questo non imparano nulla sull’utente. Invece un software gentile, che si interessi all’utente, dovrebbe sforzarsi di ricordare le mie abitudini di lavoro[13]; per esempio se nella rubrica elettronica del mio telefonino esistono 10 persone che si chiamano Oliverio, ma è abitudine dell’utente chiamare
Nel nostro caso sperimentale, del progetto di comunitàzione.it, abbiamo impostato un cookies[14] che riconoscendo l’utente gli evita di dover ricomporre ogni volta alcuni campi: nome e cognome, numero di telefono ecc. L’uso di questi piccoli strumenti aiuta anche la classificazione degli articoli.
Questo principio di progettazione consente un notevole risparmio di tempo, perché se abbiamo riconosciuto nell’utente X il Comandante dei Carabinieri, possiamo essere quasi certi che egli parlarà di ordine pubblico o sarà interessato a curare una rubrica specifica, quindi non dovremmo più chiedergli all’interno di quale rubrica vorrà pubblicare il suo testo, ma il sistema lo risconosce in automatico. Naturalmente l’utente deve poter “forzare” il sistema ed eventualmente pubblicare altrove il suo testo.
Il software gentile mi rispetta.
Ripercorrendo l’esempio appena fatto del Comandante della locale Stazione dei Carabinieri, può succedere che, in sua assenza, sia un suo collega ad accedere al nostro sistema per inserire una notizia di pubblico interesse. Il software gentile deve permettergli di cambiare il numero del telefonino e il nome del Comandante con il suo. Non deve impedirgli questa possibilità. Così come deve permettere, a chi è nato a Crotone, di poter segnalare tra le province di nascita, se proprio deve chiederglielo, Crotone e non Catanzaro come era in precedenza.
Purtroppo questo è un problema ancora molto diffuso.
Giancarlo Livraghi, che si è occupato spesso di comunicazione, ha pubblicato recentemente un libro su “Il potere della stupidità”, dove fa notare la stupidità della tecnologia, imperante tra l’altro, soprattutto nei sistemi delle Amministrazioni pubbliche, che impediscono all’utente di modificare alcuni dati manualmente.
Ed è recente la polemica scoppiata su Radio 24[15], la radio del Il sole 24 ore a proposito di alcuni sistemi di anagrafe che non riconosco più i codici fiscali di alcuni contribuenti, in quanto alcuni Comuni sono stati accorpati con altri, e l’artefatto non permette all’utente di far accettare al sistema un codice ISTAT non più presente nel suo database (!).
La stupidità della tecnologia, Cooper la traduce con un’altra richiesta nei confronti degli artefatti tecnologici: il software deve essere elastico. Deve cioè prevedere la possibilità che l’utente voglia, per un qualsiasi motivo, agire manualmente sulla base dei dati, modificare delle impostazioni, delle informazioni. È molto utile, a volte, poter procedere a delle variazioni. Invece è esperienza comune sentirsi dare risposte del tipo: mi dispiace, ma il sistema non lo permette.
Il software gentile è servizievole
Se Francesca, l’utente di comunitàzione, abbiamo detto che accede a comunitàzione poiché trova questo sito tra i risultati compatibili con la sua ricerca effettuata su Google, è indispensabile che comunitàzione rispetti l’utente e proponga ad egli altri risultati compatibili con la ricerca appena effettuata. Sfruttando degli agente intelligenti quindi, gli artefatti devono restituire risposte il più possibili vicine alle esigenze dell’utente, anticipandone le richieste quando possibile.
Il software gentile anticipa le mie esigenze
Ogni utente è speciale. Ha delle esigenze specifiche e gli artefatti dovrebbero imparare a riconoscerle. Analizzando gli obiettivi dell’utente, il progettista insieme al designer possono trovare delle esigenze prioritarie e quindi anticipare le richieste dell’utente.
E’ in fase di sviluppo per comunitàzione un nuovo sistema che anticiperà le esigenze degli utenti.
Studiando il nostro utente tipo Francesca, si è evidenziato come ella si interessi fondamentalmente ad uno degli argomenti trattati dal vortale. Ci sembra giusto che il sistema la riconosca all’accesso e le proponga di visitare gli elaborati che presupponiamo ella vorrebbe leggere. Anticiparne le esigenze significa rendere l’artefatto più performante, facile, e gradevole da usare. Il tutto con un grande risparmio di tempo da parte dell’utente.
Il progetto del design dell’interazione orientato agli obiettivi dell’utente deve prendere in considerazione questi aspetti e potenziarli. Quando un artefatto è basato sul software, le possibilità di far diventare intelligente l’oggetto non mancano e devono essere sfruttate tutte le potenzialità della tecnologia. Google sta da tempo progettando nuovi strumenti per rendere più personalizzabile l’accesso alle informazioni da parte dell’utente.
Progettare per la gente: gli scenari
Ogni scenario è la descrizione concisa del modo in cui il personaggio usa un prodotto basato sul software per raggiungere un obiettivo.
Solitamente gli utenti usano l’artefatto per una gamma ristretta di compiti, anche quando si tratta di personal computer. Un video registratore, la prima funzione che deve svolgere, è registrare dei programmi. Una sveglia, segnare l’ora e suonare quando ci serve. Le altre impostazioni (la programmazione dei canali e ogni altra funzione accessoria del videoregistratore), potrebbero rimanere sconosciute per sempre a molti utenti. Per questa ragione la prima cosa da fare, nella progettazione di un artefatto è quella di rendere comprensibili immediatamente le funzioni primarie, quelle che Cooper definisce gli scenari d’impiego quotidiano. I nuovi utenti devono imparare rapidamente ad usare le funzionalità per cui l’artefatto è stato comprato. Le altre funzioni possono rimanere in secondo piano se ciò può significare un risparmio dell’attrito cognitivo.
[1] Raskin, op.cit.
[2] Cooper, op.cit. pp. 153 e succ.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem
[5] Cooper, op. cit. p. 156
[6] Fabris, G., Il nuovo consumatore verso il postmoderno, Franco Angeli, MIlano 2005.
[7] Ci riferiamo qui all’espressione utilizzata da Mafessoli in vari sui testi.
[8] Non si vuole in alcun modo qui sminuire la componente estetica nel design, che come vedremo in seguito svolge un ruolo fondamentale anche per il design dell’interazione. Si vuole piuttosto sottolineare il cambiamento non solo della tendenza, ma soprattutto della domanda: gli utenti chiedono che gli strumenti funzionino, li aiutino a portare a termine i propri compiti.
[9] Fabris, op. cit. p. 63
[10] Questa classificazione la abbiamo ripresa da Cooper, op. cit, perché ci sembra utile a comprendere la distinzione tra i diversi obiettivi e, nel nostro caso, a conoscere meglio cosa gli utenti pretendono dagli artefatti che usano.
[11] Le nuove versioni del Windows, il sistema operativo più utilizzato al mondo, prevedono l’esistenza di più utenti sulla stessa macchina, dividendo sia le impostazioni personali (appunto), il disco fisso, e le funzioni. Ogni utente si sente così proprietario dell’artefatto e non gli interessa come gli altri lo useranno.
[12] Sia Norman che Negroponte utilizzano questa espressione nel corso dei loro saggi.
[13] Cooper, op. cit.
[14] I cookies (letteralmente “biscottini”) sono piccoli file di testo che i siti web utilizzano per immagazzinare alcune informazioni nel computer dell’utente. I cookie sono inviati dal sito web e memorizzati sul computer. Sono quindi re-inviati al sito web al momento delle visite successive. Le informazioni all’interno dei cookie sono spesso codificate e non comprensibili. Furono inventati da Lou Montulli, al tempo impiegato della Netscape Communications.
[15] Ci riferiamo qui ad una puntata condotta da Valerio Staffelli nella sua trasmissione del 22/10/2004 sull’emittente dell’Assindustria.