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Problem setting, per raccogliere un briefing e definire il problema del cliente.

29/01/2008 15937 lettori
5 minuti
Problem setting, per raccogliere un briefing e definire il problema del cliente.
 
Annamaria Testa dice che comunicare è come giocare al tiro a segno del luna park. Si può tirare la palla da qualche parte, tirarla verso il bersaglio, colpire il bersaglio, colpirlo al centro e ricevere in regalo una bambolina. La comunicazione inefficace non va neanche verso un bersaglio, quella efficace ottiene in risposta la bambolina.
 
 
Il problema è tutto nella qualità della bambolina che riceviamo indietro. E’ quella che volevamo? E’ qualcosa di più o di meno? Ritorna a noi o a qualcun altro? E’ una bambolina o un diavoletto?
Per risolvere un problema bisogna prima definirlo, altrimenti si rischia di risolvere un problema al posto di un altro, di sprecare energie per un problema marginale lasciando insoluto il problema vero. In un processo di comunicazione, per restare nella metafora della bambolina, il problem setting consiste nel definire dov’è il bersaglio, com’è fatto, qual è il centro o comunque la zona che mi fa vincere la bambolina, quali bamboline sono associate a quali bersagli, che arma ho per colpire il bersaglio, quanta forza e abilità ho, quanti soldi e quanto tempo per stabilire quanti tentativi posso fare, se sono solo io a tirare o se ho dei compagni, se la bambolina che ricevo è adeguata allo sforzo che faccio per ottenerla.
Il professionista di comunicazione applica gli strumenti di problem setting quando insieme con il cliente definisce il briefing della campagna o dell’azione di comunicazione. Pochi clienti hanno le idee chiare e sono capaci di dare un briefing preciso e completo. I più devono essere aiutati dall’account executive che li intervisterà per aiutarli a precisare le ragioni per cui si vuole comunicare, i risultati che si attendono, le problematiche che si vogliono risolvere.
Uno strumento semplice per raccogliere un briefing sono le famose cinque W, che a volte diventano sei, a volte aggiungono una o due H, ma in sostanza servono a definire Who, chi parla a chi, chi ascolta chi, Where, dove si opera, When, quando, Why, per quali scopi, What, che cosa si dice, How, come, How much, quanto si può spendere. Naturalmente tutto ciò non basta, perché occorrono studi di mercato e di prodotto/servizio, ma è già una buona base di partenza.
Tuttavia, se le cinque W ci aiutano a tenere presente ciò che vogliamo sapere, come facciamo a saperlo? Possiamo porre le domande aperte e dirette al cliente, ma non sempre otterremo risposte soddisfacenti. Spesso il cliente non risponde ad una domanda diretta, o risponde una cosa per l’altra eludendo la domanda. Non perché sia stupido o cattivo, ma perché spesso ciò che chiediamo non gli è del tutto chiaro, o rappresenta una richiesta inconsueta.
Uno strumento che ci aiuta a indirizzare il cliente verso ciò che noi vogliamo sapere, e serve a definire bene il problema insieme con lui, è il dialogo strategico, elaborato da Giorgio Nardone nel suo modello di terapia breve strategica derivato dal problem solving di Watzlawick e del Mental Research Institute di Palo Alto (CA), e descritto in Giorgio Nardone, Il dialogo strategico, Ponte alle Grazie, 2004.
Il dialogo strategico è un processo di interazione fra consulente e cliente (o fra genitore e figlio, o chiunque altro) per cui le domande creano o indirizzano le risposte, in modo da conoscere ciò che pensa il cliente, e da indirizzarlo verso direzioni più funzionali, nel caso che il cliente si disperda. Si basa su domande ad alternativa, riformulazioni, ristrutturazioni, prescrizioni. Se faccio una domanda aperta, ottengo una risposta aperta. Quindi se domando: che cosa vuoi fare? Il cliente mi racconta tutta la sua storia e mmi sommerge con informazioni spesso inutili. Se invece chiedo: vuoi rimuovere un ostacolo o raggiungere un obiettivo? pongo un’alternativa che mi fa capire subito se c’è qualcosa che non va o se va tutto bene ma potrebbe andare meglio.
Dunque vediamo come si può articolare il dialogo.
-         C’è un problema da risolvere o un obiettivo da raggiungere?
-         Un problema da risolvere.
-         E’ un problema di organizzazione o di comunicazione?
-         Di comunicazione.
-         Comunicazione all’interno della sua azienda, o all’esterno?
-         All’esterno.
-         Bene, lei mi sta dicendo che vorrebbe risolvere un problema di comunicazione esterna.
-         Proprio così (il cliente accetta la nostra riformulazione).
-         Il problema esiste quando comunica con i clienti o con il trade?
-         Mah, piuttosto con il trade.
-         Perché è poco incentivato o perché non è soddisfatto della consegna degli ordini?
-         In genere si lamenta per ordini che arrivano in ritardo.
-         Allora vediamo se ho capito bene. Lei mi dice che non riuscite a comunicare bene con il trade, perché è insoddisfatto della vostra distribuzione.
-         Sì, diciamo che è così (ogni volta che il cliente accetta la riformulazione, possiamo procedere).
Come si vede, in pochissime battute siamo riusciti a inquadrare il problema, e a capire che, contrariamente a quanto ci aveva detto il cliente all’inizio, il nodo non è tanto nella comunicazione, quanto nella distribuzione.
L’uso delle alternative è potente perché taglia via una metà del mondo sconosciuto che abbiamo davanti, concentrandoci solo sulla metà utile. Via via si taglia la metà della metà, fino ad arrivare al bersaglio, che inquadriamo con chiarezza non in base a nostre idee preconcette, ma a ciò che ci ha detto il cliente.
La riformulazione (se ho capito bene, lei mi dice che…) rassicura il cliente, che si sente ascoltato e compreso, e aiuta il consulente a verificare se ha capito, se sta procedendo in modo giusto.
La ristrutturazione (lei mi dice che il trade è insoddisfatto della distribuzione) aiuta il cliente a focalizzare meglio il problema (se non migliori la distribuzione, con la comunicazione non risolvi gran che). Viene abilmente fatta dal consulente usando le stesse parole del cliente (lo dice lei, non io) e abbassandone in tal modo le resistenze. In altre parole, se il consulente facesse il grillo parlante (eh eh, ti ho beccato, il tuo problema è nella distribuzione, non nella comunicazione) il cliente resisterebbe o fuggirebbe (costui non capisce niente del mio problema, chi si crede di essere?). Se invece gli facciamo notare che noi non sapevamo nulla, ce lo ha detto lui perché è lui che conosce la sua azienda, non ha niente a cui resistere, ma sente che abbiamo capito che cosa ci ha detto e si tranquillizza.
Definire bene un briefing a monte del lavoro semplifica il lavoro stesso. E’ sempre sgradevole mettersi a fare una bella strategia creativa, e poi scoprire che il problema era un altro, e che il cliente non ce lo aveva detto non per farci un dispetto, ma perché non lo vedeva con chiarezza nemmeno lui.
Come dice Watzlawick, i problemi sono soprattutto problemi di comunicazione. Se ci capissimo quando parliamo non avremmo problemi. Il dialogo strategico è un modo per verificare la comunicazione a monte e durante tutto il processo. Ognuno lo può praticare anche in famiglia: stasera vuoi uscire o restare a casa? Prefersici un secondo di carne o di pesce? Il mio comportamento ti irrita sempre o solo in circostanze particolari?
 
Tutto questo, e molto altro sulla definizione dei problemi, si trova nel mio libro “Fai luce sulla chiave”, il quarto titolo della nuova collana “Fare azienda”, in collaborazione con la Scuola di Ingegneria dell’Impresa dell’Università di Roma “Tor Vergata”, editore l’Airone, Roma.
Il libro sviluppa e aggiorna quanto avevo pubblicato in forma ipertestuale in www.problemsetting.it fin dal 2000.
Il sito diventerà pian piano una comunità di problem setter e continuerà a presentare aggiornamenti forniti da me e da altri.
Il libro invece permette di tenere in mano e portare con sé una raccolta di brevi capitoli sulla definizione dei problemi, con riflessioni teoriche, impostazioni di metodo e tecniche e strumenti che io stesso uso da tanti anni nel mio lavoro.