One to one advertising: è necessario essere maleducati per raggiungere il target?
Ho letto su moltissimi siti della vicenda di Rachel Beckman, una giornalista del Washington Post che su Facebook è stata vittima di messaggi pubblicitari molto pesanti, in cui si è vista dare dal suo social network prima della cicciona e poi della sterile.
La cosa più preoccupante ed insieme più significativa è stata l’evoluzione del messaggio sulla base di ciò che Rachel scriveva nel suo profilo, fino al “Vorrai mica essere una sposa grassa?” sparato alla vigilia del matrimonio.
Il fatto che l’advertising si evolva sulla base del comportamento dell’utente, purchè tutte le impostazioni privacy scelte dal navigatore siano rispettate, è un ottimo esempio di comunicazione one to one che ritengo assolutamente positiva in termini di efficacia.
Tuttavia è davvero necessario essere così aggressivi? Questo tipo di linguaggio dà davvero risultati positivi?
Come scrissi qualche anno fa qui su Comunitazione una campagna trash o aggressiva di fatto assicura un maggiore ricordo e potenzia la notorietà del marchio, anche (e soprattutto) se ne viene imposta la cessazione.
Bisogna dire però che nella marca moderna non è importante solo il ricordo e il riconoscimento ma anche le sensazioni che il brand genera e l’immaginario ad essa collegato.
Credo inoltre che i consumatori moderni siano più maturi ed informati di un tempo e dunque il ragionamento “purché se ne parli” mi sembra un po’ antiquato.
Dal mio punto di vista dunque ben venga la targhettizzazione spinta, ma senza mai mancare di rispetto al nostro interlocutore, perché ciò alla lunga sarà sicuramente inutile e controproducente.
Mi piacerebbe conoscere anche la vostra opinione.