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SCUOLA DI DESIGN | Intervista a Pino Grimaldi

20/09/2003 20148 lettori
5 minuti

Luca: Insieme alla SDOA (Scuola di Organizzazione e Direzione aziendale) della Fondazione A. Genovesi di Salerno, con sede a Vietri sul mare, è nato un progetto di formazione nel settore del design grafico che è stato denominato “Scuola di Design”.
Perché una “Scuola di Design”, era proprio indispensabile?

Pino Grimaldi: Si. Scuola di design si posiziona, infatti, nell’area di mediazione tra teoria del progetto di comunicazione e competenze tecnologiche informatiche.
Oggi si pensa che la conoscenza dei software rappresenti già un livello di competenza sufficiente a realizzare i progetti di comunicazione. Invece la conoscenza del software somiglia - mi si conceda la forte semplificazione - alla padronanza della tecnica dell’acquarello che, come è noto a tutti, non significa automaticamente saper realizzare un’opera creativa. Anche se il software non può essere considerata una semplice tecnologia di produzione, neutrale ed ininfluente, la sua conoscenza non abilita tout court alla progettazione.
Spesso manca il progetto e la cultura del progetto. Altrimenti non avremmo quell’immenso luna park incasinato come è oggi il web.

D: Ma come è nato questo progetto?

R: Dopo trent’anni di esperienza e di lavoro nel settore del design grafico, di tanti progetti di formazione realizzati per altri, dopo una lunga e continua riflessione sullo statuto disciplinare, valeva la pena impegnarsi direttamente.
Poi, come per ogni cosa, occorre un’idea; Alessandra Alfani ha ripreso e attualizzato un progetto che avevo accantonato, poi, grazie alla sensibilità di Vittorio Paravia, presidente SDOA e del suo eccellente staff di collaboratori, Pasquale Loria, Marcella Anzolin, Manuela Mascia (e tanti altri che ancora non conosco) ho messo a punto una iniziativa che affianca i corsi della SDOA in quest’area del Design della comunicazione che non era ancora presente nella pur ampia offerta della scuola della Fondazione Genovesi. Lo abbiamo fatto con un marchio “Scuola di Design” appunto e con un sito web autonomo, proprio per caratterizzare meglio il progetto.
Naturalmente in questa impresa non sono solo, la formazione è un lavoro di squadra e anche la Scuola si avvarrà di competenze di altro profilo, come Gelsomino D’Ambrosio, con il quale divido da trent’anni il mio lavoro a Segno Associati; Alessandra Alfani (che curerà il coordinamento), altri docenti come Vittorio Morrone, Enzo Lauria, Fulvio Iannucci e con l’affettuosa adesione di una giovane psicologa di prestigio come Pina Boggi Cavallo.


D: Ma allora come cambia la formazione del design grafico?

R: Il nuovo millennio ha visto il compimento della “sanatoria” di una enorme contraddizione, di un immenso paradosso; a fronte di una onnipresenza pervasiva nel sistema sociale, il design grafico è stato sempre ai margini del sistema formativo accademico.
Negli anni novanta, con la nascita dei corsi di laurea in scienze della comunicazione, interni alle Facoltà di Lettere e Filosofia e dei corsi di laurea in disegno industriale, non solo il sistema accademico colma un vuoto formativo, ma “scopre” di propria competenza e dunque “degne” di validità accademica, una vera e propria miniera di discipline legate alla comunicazione alle quali, dovendo attribuire denominazioni italiane, assegna diverse locuzioni, dense di articolate e a volte faticose perifrasi.
Ma non è stato sempre così. Negli anni sessanta e settanta la formazione nei settori del design era quasi del tutto assente, se non per le poche sedi prestigiose e storiche.
Per chiunque operi nella formazione, nell’impresa, nelle attività professionali, è diventato inevitabile, dunque, maturare una consapevolezza dei modi e dei tempi dell’evoluzione tecnologica per non subire gli effetti della rapida obsolescenza che investe, ormai congiuntamente, tanto le macchine quanto i saperi. Una solida consapevolezza, il giusto equilibrio tra tecnofilia e tecnofobia, può consentirci di saper gestire la velocità, magari addirittura attendere se occorre, ma non inseguire inutilmente la spinta ansiogena, indotta dal marketing tecnologico e informatico, che rappresenta spesso solo l’effetto più palese di un neo consumismo dell’era digitale.
Anche le parole, in questi scenari così mutevoli, divengono ben presto obsolete.

D: Ma quali sono le differenze rispetto all’offerta formativa attualmente disponibile?

R: Le differenze consistono principalmente nella conoscenza del mercato del lavoro del settore comunicazione che potrebbe consentire un placement più facilitato. Scuola di design nasce con il rapporto diretto con le imprese di Comunicazione. Questo anche grazie alla rete di relazioni e di partnership previste dal progetto. Inoltre, ogni progetto di formazione, per quanto minuzioso, affida gran parte del suo successo alla qualità dei docenti ed al sistema di team teaching attivato.


D: E quali le ragioni per cui vale la pena iscriversi?

R: Amo la triade pitagorica e ne enuncio almeno tre. La prima ragione è per comprendere il mondo professionale della comunicazione, capire dall’interno, nel concreto i ruoli presenti nell’impresa, il lavoro reale e le competenze necessarie per offrire la propria professionalità. La seconda scaturisce dalla conoscenza della domanda di professionisti espressa dalle imprese; la terza è il saper fare un “mestiere” specifico che rappresenta, da sempre, il vero, direi quasi l’unico lasciapassare serio al mondo del lavoro.


D: Segno Associati è un esempio dello sviluppo di una struttura nata come studio grafico, e cresciuta come una vera e propria agenzia di comunicazione. Come è avvenuto questo passaggio?

R: Segno Associati non è un’agenzia, ma un’impresa di comunicazione.
Fin dal 73, quando con Gelsomino D’Ambrosio fondammo lo “Studio Segno”, al 1984, quando con Giovanni Vietri lo trasformammo in “Impresa di Comunicazione”, abbiamo evitato accuratamente l’uso del termine agenzia.
Oggi Segno Associati è un’impresa (come ogni grande studio) con eccellenti professionalità (spesso perfino sottoutilizzate) e la differenza non è nominalistica e consiste nella metodologia con la quale viene affrontato il lavoro ed il business della comunicazione.
Nel settore dei Servizi B2B (business to business) forniamo l’insieme di servizio e prodotto, in una filiera che va dall’analisi dei bisogni del committente (quando è possibile) fino al prodotto finito - che sia un dépliant o una intera campagna, un allestimento o un progetto di corporate identity, un progetto di packaging, un’intero piano di marketing o una ricerca di “customer satisfaction”.
Naturalmente questo significa acquistare i prodotti/servizi (stampa, allestimenti, consulenze, etc.) come semilavorati, seguirne la realizzazione, controllare la produzione, con l’intera responsabilità del prodotto finito a nostro carico. Ciò implica, quindi, aver organizzato una struttura in grado di gestire tanto dal punto di vista realizzativo, quanto da quello economico e finanziario, ogni progetto.
Dunque, quando parliamo di “impresa”, intendiamo l’assunzione vera e propria del “rischio” che deriva dall’acquisto dei semilavorati: carta, materiali, stampa, altri servizi, per poi sviluppare un processo di produzione completo.
È tuttavia il caso di precisare che Segno Associati non svolge attività di gestione dei media (pianificazione, acquisto spazi), per tante ragioni, non ultima quella legata al nostro mercato, nel quale la posizione di intermediazione delle agenzie pubblicitarie non risulta “gradita” né ai mezzi, né ai clienti, che preferiscono gestire in proprio la pianificazione connessa all’acquisto degli spazi.


D: Ma come sta cambiando il rapporto di lavoro con la committenza?

R: Stiamo attraversando una vera rivoluzione, non solo tecnologica ed economica, ma anche relazionale e comportamentale. Questa fase determina un aumento delle complessità in tutti i settori della vita sociale e, in particolare, nelle organizzazioni. Di questo aspetto bisogna essere profondamente convinti. Non prenderne coscienza e non cambiare le proprie modalità operative significa rinunciare ad essere competitivi.
L’innovazione, come pure l’aggiornamento tecnologico e la formazione continua, devono diventare la regola strategica costante di ogni organizzazione che non vuole perdere la propria competitività.
Già nel 95, con il nostro libro “Lo studio grafico”, affrontavamo una critica al concetto di “immagine coordinata”, proponendo l’espressione “identità visiva”, non perché nuova, ma per distinguere l’architettura strutturale della comunicazione d’impresa, le fondamenta dei sistemi di identificazione, da tutto il resto.
Parlavamo della necessità di progettare in termini di “Piano di identità visiva”.
Oggi, il passaggio dall’era del possesso a quella dell’accesso, per dirla con Rifkin, induce, senza più incertezza ideologica, l’impero del Marketing.
Una delle chiavi strategiche più efficaci per essere competitivi, come impresa di comunicazione, è la cura della customer satisfaction, che per noi è diventato un “prodotto” e uno strumento di analisi dell’impresa, ed è strumento della progettazione, tanto dell’identità aziendale, quanto del branding, che della comunicazione, in tutte le sue forme.


D: Mentre molte agenzie pubblicitarie sono naturalmente orientate al marketing può esserci, a suo parere, da parte del progettista grafico una impostazione di marketing strategico?

R: Naturalmente il marketing è progettazione strategica per definizione.
A mio parere nessun progetto serio di Design (preferirei usare questa espressione – so di dare un dolore a molti - ;-)), e mi piacerebbe anche poterlo spiegare) può esistere ed essere efficace, senza una solida strategia di posizionamento e di segmentazione dei target. Soprattutto oggi che siamo nel bel mezzo di una “rivoluzione continua”, che cambia costantemente le regole del gioco, e rende i confini disciplinari sempre più “Blur”, indistinti, come suggestivamente propongono Davis e Meyer nel loro libro, rompendo le rigide categorie disciplinari, ormai difficili da picchettare.


D: Ma esiste ancora una contrapposizione tra artista e designer?

R: Una volta il progettista partiva dalla sua creatività, dal suo mondo di “semi-artista”, tentava di veicolare i suoi valori ideali ed estetici all’interno del prodotto industriale, consapevole delle contraddizioni implicite nell’essere al servizio dell’industria; la sua era una posizione un po’ anarcoide, un po’ trasgressiva ed un po’ di complicità con il capitale (per utilizzare una vecchia categoria marxiana) e si sa, le contraddizioni sono ovunque, diceva sempre il Nostro. Ma il discorso andrebbe storicizzato.
Oggi nessuna delle attività di comunicazione è più possibile senza analisi di marketing, in qualunque progetto di design la dimensione estetica è molto spesso subalterna, assorbita dalle esigenze economiche, di funzionalità con gli obiettivi della committenza. Ma così ci perdiamo…


D: Segno Associati ha prodotto soluzioni di identità per grandi eventi, enti pubblici: c'è ancora una differenza fra pubblico e privato, nella definizione delle strategie di comunicazione?

R: Ci sarà sempre una differenza, culturale, di linguaggio, di tipo organizzativo, di tipo economico, non solo tra pubblico e privato, ma tra piccolo e grande ente, piccola, media e grande impresa ed è una differenza di tipo culturale e di complessità di approccio metodologico.


D: Lei e D’Ambrosio avete sempre dedicato una grande attenzione alla cultura del progetto grafico: cito ad esempio la rivista “Grafica”, strumento disciplinare unico per una teoria e una storia della disciplina; ma anche un vostro intervento su Alfabeta negli anni Ottanta, “E se Gutenberg fosse un designer?”, sicuramente fondamentale per la definizione del ruolo del progettista. Cose che hanno lasciato un segno tangibile...

R: Un segno tangibile per pochi. Il saggio citato su Gutenberg come protodesigner, è stato scritto, nella prima versione pubblicata su “Op. Cit.”, con Cettina Lenza, una studiosa rara, oggi, purtroppo per noi e felicemente per lei, professore di Storia dell’Architettura.
Mi piacerebbe che fosse così, ma non credo, altrimenti Grafica avrebbe continuato ad uscire con il patrocinio dell’AIAP. Poi anche noi ci siamo stancati. Troppo faticoso.
Nel primo numero di “Grafica”, 1985, Renato De Fusco scrive un saggio dal titolo: “La Grafica è Design” e mai saggio fu così profetico, quanto poco considerato.
Sostenere nuove locuzioni, come “Infografica”, mi sembra una battaglia persa, non dico sbagliata, ma persa. È Infodesign che vincerà, ma non per ragioni romantiche o ideologiche, semplicemente perché la nuova dimensione digitale iper invasiva e onnivora, necessita di approcci multidimensionali, sempre più complessi e integrati, dove le competenze trasversali non bastano mai ed il team vincerà sul singolo, come il network vincerà sull’impresa isolata.


D: Con l’insegnamento nell’ISA “F.Menna” (uno dei suoi maestri) l’insegnamento all’ISIA di Urbino e poi la responsabilità nel Comitato scientifico; l’insegnamento nel Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione a Salerno, lei dedica molte risorse alla formazione. Come le appare oggi il panorama, da questo punto di vista?

R: La Grafica non è molto presente nell’universo burocratico della formazione pubblica superiore a carattere universitario, salvo che per l’ISIA di Urbino e qualche rara Accademia di Belle Arti; e questo aspetto è ancora un serio, serissimo problema.
Il problema dei corsi di laurea in Scienze della Comunicazione è un esempio lampante di un progetto realizzato solo a metà, mancante di tutta l’area che non appartiene alle scienze, diciamo per brevità, umanistiche, vale a dire le discipline dell’area della progettazione visiva. La mia esperienza in tal senso è stata molto interessante; insegnare una disciplina di natura progettuale a degli studenti di una Facoltà di Lettere, mancanti di tutte le conoscenze “pratiche”, privi di laboratori e di qualunque tessuto connettivo legato alla comunicazione visuale, mi ha fatto capire quanto sia ancora fondamentale “sporcarsi le mani” con colori e pennelli, fisici e digitali.
Esiste un vero gap tra domanda del mondo del lavoro e formazione pubblica nel nostro settore; dipenderà dalla capacità degli atenei, grazie all’autonomia, riprogettare i corsi di laurea per adeguarli ad una domanda di professionalità che non si trova.
A fronte di una presenza molto pervasiva della formazione privata, che trova un mercato del tutto libero dalla concorrenza pubblica, la Pubblica Istruzione prima ed il Miur oggi, ignorano abbastanza la Grafica come disciplina specifica.
Va un po’ meglio per il Disegno Industriale, che ha presenze accademiche in molte università ed è sotto tale “bandiera” che il Graphic Design è entrato nel mondo accademico. Penso al corso di Laurea in Disegno Industriale al Politecnico di Milano, che ci offre i primi designers laureati.
Alla grafica è mancata una strategia di penetrazione nella burocrazia accademica.


D: Nel momento in cui la progettazione su web comincia ad avere un peso considerevole, come si ridefinisce il rapporto con la tipografia e con la carta?

R: Non si ridefinisce affatto; le rivoluzioni sono, appunto, rivoluzioni non trasformazioni.
La rivoluzione digitale non ha trasformato il ruolo e le metodologie del progetto grafico; ha proprio scardinato dalle fondamenta i processi. È cambiato tutto - per qualche ritardatario sta ancora cambiando - modalità, procedure, relazioni umane, metodologie di produzione, e dunque, di progettazione. Tutto.
Chi pensa di affrontare questa fase semplicemente adottando a malicuore la nuova tecnologia come un male necessario, non ha capito. Non si può affrontare l’oggi iper-tecnologico con una cultura tecnofobica e individualistica o, peggio, con un adattamento. Occorre un ripensamento di tipo paradigmatico di tutti i processi di produzione, di relazione e, dunque, di progettazione. È una immensa rivincita della cultura del progetto globale, per questo penso ad un approccio come quello del Design che non appartiene più alla Grafica come la immaginava la nostra generazione.
Il progetto web nasce appunto nell’era del “blur” ed è territorio indistinto di competenze molteplici, intrinsecamente correlate.
Per questo non amo i “grafici del web” che il più delle volte scambiano il web per un esercizio di calligrafia, sfoggiano il Luna Park degli effetti speciali dei software, ignorando che è spesso la consapevolezza del Marketing a determinare i contenuti; l’approccio cognitivo a favorire l’interazione e l’usabilita; in altri termini è la metodologia del design a determinare il successo di un sito web.
La carta, a mio parere, resterà quell’oggetto di seduzione che è sempre stata, inesauribile fonte di suggestione e di ispirazione per ogni designer, anche il più tecnofilo. Al limite, per la carta, è un problema di quantità di quote di mercato. Ma ci ha già pensato l’e-mail dell’Internet a contenere il consumo. Ma vale per i prodotti di fascia bassa.
La seduzione sarà sempre abbastanza costosa!

Luca Oliverio
Luca Oliverio

Luca Oliverio è il founder e editor in chief di comunitazione.it, community online nata nel 2002 con l'obiettivo di condividere il sapere e la conoscenza sui temi della strategia di marketing e di comunicazione.

Partner e Head of digital della Cernuto Pizzigoni & Partner.

Studia l'evoluzione sociale dei media e l'evoluzione mediale della società.