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Festival: perché l'avete scelta come parola del mese di marzo

04/05/2010 08:00:00 7250 lettori
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Da tempo il popolo festivaliero dei ruggenti anni Sessanta non esiste più ma, forse, non esiste più nemmeno il popolo. L’atmosfera festaiola sanremese è trasmigrata altrove, negli ambienti sempre più trasgressivi del moderno festino (ne ha fatta di strada rispetto al “trattenimento signorile” di un tempo); e le canzoni, a Sanremo, intonate sempre più spesso anche da chi cantante professionista non è, sembrano essere diventate una mera occasione per inscenare pantomime, anche all’insegna della provocazione verbale gratuita. Tutto, a dirla con Beaumarchais, sembra sia finito nella solita canzonetta. A impedire che un popolo di poeti, artisti, eroi, santi, pensatori, scienziati, navigatori, trasmigratori divenga anche un popolo di chansonnier ci pensano i troppi che, sollecitati più volte a cantare, si guardano bene dal farlo. Riadattando un’affermazione di Eric Berne, lo psicoterapeuta americano fondatore dell’analisi transazionale: se non c’è speranza per l’italianità, ci sia almeno speranza per i singoli italiani.