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Lobbying: interessi in conflitto

02/05/2011 22996 lettori
3 minuti

Ci sono delle condizioni basiche oltre le quali un’azione di pressione verso un decisore pubblico,  presenta discutibili aspetti, sia di natura legale sia sotto il profilo del merito ed etico.

Quali sono queste condizioni ?

Ve ne sono diverse, ma quelle su cui vogliamo immediatamente soffermarci, le principali, consistono nella compatibilità dell’interesse “portato” rispetto a quello generale e nella separazione formale e sostanziale, quindi nella garanzia di indipendenza reciproca dei due fronti della relazione, che non a caso viene denominata “istituzionale” e non soltanto “pubblica”.

 

Riguardo al primo aspetto possiamo dire che un'attività di lobbying svolta per l’affermazione di interessi privati in netto contrasto con quelli della comunità, non collettivamente sostenibili, e fatti valere da una posizione ingiustificatamente privilegiata di accesso e di ascolto non sarebbe compatibile con i principi dell'ordinamento democratico, eticamente inopportuna e, in date circostanze, sostanzialmente illegale.

Guardando la sequenza dal lato istituzionale non si possono che mettere in evidenza i vincoli legali ed etici che dovrebbe avere l’agire pubblico; vincoli di varia natura che in queste dinamiche, più che in ogni altra circostanza, dovrebbero opportunamente integrarsi.

In un processo di decision making,  improntato non solo alla legittimità ma anche all’opportunità-adeguatezza dello stesso e degli atti che da esso possano scaturire, non si dovrebbe prescindere da un onere di preventiva informazione sui temi posti all’ordine del giorno ai soggetti potenzialmente interessati e soprattutto dalla garanzia rivolta agli stessi di una conseguente paritaria possibilità di accesso ed espressione.

Ancora: nella deliberazione finale, adeguatamente motivata, non dovrebbe mancare l’implicita ed equilibrata valutazione delle diverse argomentazioni e posizioni espresse.

Solo in questo modo la decisione, anche se relativa ad una singolare istanza di ordine sociale o economico ed anche se molto specifica nel suo contenuto, potrà dirsi formalmente e sostanzialmente adottata nell’interesse pubblico e legittima.

L’espressione usata è “decisione” e non semplice atto in quanto potrebbe trattarsi di un’articolazione di provvedimenti e comportamenti, una complessa politica composta da aspetti formali e informali; in ogni modo i termini non cambierebbero, la “griglia” etica e legale dovrebbe essere rispettata.

 

Questo modello “aureo”, sulla descrizione e sulla necessità del quale la letteratura si è profusa, nella realtà dei fatti e in una moltitudine di casi, sa di (molto) ottimistica proiezione.

Al contrario di quanto si auspica in termini di trasparente contrattualizzazione dei contenuti spesso si hanno decisioni ancora più che deboli nel merito e discutibili nelle forme, disequilibrate ed in realtà aprioristicamente tendenti verso un solo lato tra quelli, sempre sostanzialmente privati in rilievo o concorrenza; dunque scelte tendenti a produrre situazioni nelle quali alcuni soggetti ed alcuni interessi individuali o collettivi non per ragioni di qualità, compatibilità pubblica dell’istanza e della partecipazione risultano infondatamente privilegiati.

Ed allora rispetto all’intero quadro dell’attività politica e così ancora più sensibilmente rispetto a quello della relazione pubblico-privato si rinviene ciò che potremmo definire in termini estesi ma qui ora ben focalizzati un confitto di interessi, ovvero una preferenza disequilibrata di interessi.

“Arbitri che diventano giocatori e giocatori che mettono i panni da arbitri “: così, semplificando, si è descritta efficacemente la situazione.

In realtà si tratta di un “nodo bloccante” che incide pesantemente sui rapporti tra Stato, organismi intermedi e sotto-sistemi e, come da più parti si è rilevato, costituisce un problema centrale dell’ordine democratico, non solo etico e non solo organizzativo.

 

Venendo al tema specifico che qui interessa, vale a dire quello delle relazioni istituzionali, tali come non da ora tacitamente ma diffusamente si sono sviluppate nel nostro Paese, con la moltitudine di  conflitti di interesse che in esse si sono prodotti e che continuano a ripetersi, si osserva che due sono le situazioni disfunzionali che sopra ogni altra si sono evidenziate e continuano inalterate a manifestarsi, dando luogo all’enunciato conflitto: l’occupazione di ruoli istituzionali da parte di soggetti riferibili direttamente o indirettamente a gruppi di interesse (incompatibilità) e quella non meno incidente della “porta girevole”.

 

Nel primo caso accade che il rapporto di subordinazione di un movimento politico, o più probabilmente di una componente locale di questo, rispetto ad un gruppo di interesse ben organizzato e finanziariamente dotato, porti prima ad una sovrapposizione delle leadership ed in seconda battuta all’occupazione o meglio all’”acquisto” (in senso letterale) di ruoli di vertice nelle istituzioni territoriali o pubblico-economiche da parte delle stesse persone o loro mandatari.

L’artificio e il danno che ne consegue, sia alla comunità, sia all’istituzione coinvolta è implicito e del tutto evidente. Non vi sarà alcuna possibilità in questi casi che issues potenzialmente in conflitto con gli interessi del gruppo che colonizza e praticamente “acquista” l’apparato pubblico possano emergere: ogni forma di accesso a possibili competitori sarà nei fatti negata. Si avrà in questi casi una “cattura della regolamentazione” ed un sostanziale fallimento della missione fondamentale insita nei poteri di governo, qualunque sia la dimensione territoriale verso la quale si debbano esprimere.

Il danno per la società e l’economia in cui si sviluppano tali pratiche può risultare davvero notevole; in ambito produttivo, e non solo, non è escluso che in conseguenza di alcune faziose politiche economiche per le imprese o i gruppi svantaggiati (sia nazionali che esteri) si possa produrre un esodo delle iniziative verso “territori” in ogni senso più aperti ed agibili, con le conseguenze per il sistema che sono facili da immaginare.

 

Nel secondo caso citato, in assenza di generali, chiari e determinanti divieti legali, non è infrequente che chi ha occupato posizioni politiche elettive o chi ha avuto ruoli dirigenziali in istituzioni pubbliche sia territoriali che funzionali, cessato o abbandonato l’incarico pubblico, sia esso di carattere politico che amministrativo, possa riuscire a spostarsi con relativa facilità nel settore economico privato per rappresentare interessi particolari, senza incontrare ostacoli e senza far intercorrere un adeguato lasso di tempo.

Analogamente allo stato della legislazione non vi è alcun specifico impedimento legale a rappresentare presso le strutture pubbliche interessi particolari per i familiari o i soci di coloro che si trovano ad essere in quel dato momento gli interlocutori istituzionali nella trattazione di politiche pubbliche attinenti gli specifici, “particolari” interessi supportati.

 

In questi differenti modi oltre alla lesione dell’interesse pubblico, è possibile acquisire un privilegio ingiustificato nei confronti di altri operatori mettendo a frutto la comoda, utilissima, sovrapposizione di ruoli, i collegamenti personali o le esclusive competenze in precedenza acquisite (a spese del contribuente).

Lo sviluppo più o meno subdolo di entrambi questi fenomeni, cosa facile da focalizzare, falsa ogni possibile regola democratica ed economica a vantaggio di chi dispone delle maggiori risorse di “penetrazione” e può arrivare, nelle ipotesi più eclatanti a modificare nella sostanza la forma di governo (sia nazionale che locale) e persino la forma dello Stato.

 

Vero è che queste pratiche, scorrette e dannose rispetto ad un “equilibrio” democratico degli interessi, non hanno confini geografici e politici e che non esistono misure perfette che le possano limitare, ma si può anche rilevare che in diverse realtà istituzionali hanno trovato espressione ed applicazione differenti soluzioni, diversamente incidenti; infine che quelle di cui disponiamo per la realtà italiana sono scarsamente operative, anzi nulle,  sia sul piano enunciativo che applicativo, sia dal punto di vista delle iniziative pubbliche che private.

In altre parole nel nostro sistema i portatori di interesse che intendessero agire nei confronti del complesso politico-istituzionale in un quadro di trasparenza e piena legalità e che per i motivi sopra detti si trovassero a dover subire strane commistioni di ruoli o il “caricamento” di oneri impropri, con il conseguente pregiudizio, allo stato della legislazione e delle prassi, non disporrebbero di facili vie d’uscita e tanto meno di un incoraggiante quadro di tutele, tanto sul versante giuridico-formale che fattuale.

Possiamo concludere con l’affermazione che le relazioni istituzionali nel nostro Paese continuano ad essere interpretate in una chiave tutt'affatto particolare e decisamente “onerose” sia per chi voglia porle in essere secondo il più tipico “modello italiano”, sia per chi invece voglia far valere in modo trasparente una posizione indipendente, autonoma e di pieno diritto.

 

 Maurizio Benassuti R.