Oggi spieghiamo "Negazionismo", la parola del mese di febbraio
Il nazismo si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente.
Sono parole di Viktor Klemperer (LTI, la lingua del Terzo Reich: taccuino di un filologo, Firenze, Giuntina, 1998, p. 32). Anche il Lagerjargon (o Lagersprache, o Lagerszpracha) era “imposto a forza” agli internati stranieri, costretti ad apprendere in pochi giorni, dopo il loro arrivo nel Lager, una serie di voci ed espressioni del tedesco. Chi non ne comprende almeno una manciata di parole ed espressioni, il vocabolario essenziale per eseguire gli ordini perentori dei carnefici, non può sperare di farcela. Gli ordini si fanno rapidamente urla, le urla diventano in un attimo percosse; nei campi di concentramento, scrive Primo Levi, «abbiamo vissuto l’incomunicabilità» in forme “radicali”:
Mi riferisco in specie ai deportati italiani, jugoslavi e greci; in misura minore ai francesi, fra cui molti erano d’origine polacca o tedesca, ed alcuni, essendo alsaziani, capivano bene il tedesco; ed a molti ungheresi che venivano dalla campagna. Per noi italiani, l’urto contro la barriera linguistica è avvenuto drammaticamente già prima della deportazione, ancora in Italia, al momento in cui i funzionari della Pubblica Sicurezza italiana ci hanno ceduti con visibile riluttanza alle SS, che nel febbraio 1944 si erano arrogata la gestione del campo di smistamento di Fòssoli presso Modena. Ci siamo accorti subito, fin dai primi contatti con gli uomini sprezzanti dalle mostrine nere, che il sapere o no il tedesco era uno spartiacque. Con chi li capiva, e rispondeva in un modo che ci stupì e spaventò: l’ordine, che era stato pronunciato con la voce tranquilla di chi sa che verrà obbedito, veniva ripetuto identico con voce alta e rabbiosa, poi urlato a squarciagola, come si farebbe con un sordo, o meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al contenuto del messaggio.
Se qualcuno esitava (esitavano tutti, perché non capivano ed erano terrorizzati) arrivavano i colpi, ed era evidente che si trattava di una variante dello stesso linguaggio: l’uso della parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo necessario e sufficiente affinché l’uomo sia uomo, era caduto in disuso. Era un segnale: per quegli altri, uomini non eravamo più: con noi, come con le vacche o i muli, non c’era una differenza sostanziale tra l’urlo e il pugno. Perché un cavallo corra o si fermi, svolti, tiri o smetta di tirare, non occorre venire a patti con lui o dargli spiegazioni dettagliate; basta un dizionario costituito da una dozzina di segni variamente assortiti ma univoci, non importa se acustici o tattili o visivi: trazione delle briglie, punture degli speroni, urla, gesti, schiocchi di frusta, strombettii delle labbra, pacche sulla schiena, vanno tutti ugualmente bene. Parlargli sarebbe un’azione sciocca, come parlare da soli, o un patetismo ridicolo: tanto, che cosa capirebbe? (I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, p. 70 sg.).
Non comprendere il tedesco poteva rendere la punizione pesantissima e, in taluni casi, provocare la morte dell’internato. Anche Liana Millu, come Levi e tanti altri, ha raccontato la sua storia di deportata ebrea in un libro: Il fumo di Birkenau (Firenze, Giuntina, 1986). Siamo sempre nel complesso concentrazionario di Auschwitz; il nuovo campo di Birkenau (per i polacchi Brzezinka), che si aggiungeva a quello in cui era stato condotto lo scrittore torinese (Monowitz), era stato inizialmente pensato per i prigionieri di guerra; sarebbe invece passato alla storia per il Vernichtungslager (‘campo di sterminio’) per eccellenza, il più tristemente famoso nel genocidio del popolo ebraico a opera del regime hitleriano.