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Intervista al Professor Francesco Gallucci + commento

22/07/2008 19317 lettori
5 minuti
01/04/2008
 
Intervista al Professor Francesco Gallucci
 
1.      1 Certamente l’emotività del consumatore è difficile da descrivere in modo oggettivo, da definire come oggetto d’analisi, secondo lei è più efficace analizzare le reazioni del consumatore sul punto vendita o di fronte a una comunicazione pubblicitaria? Mi sembra che la reazione alla pubblicità sia una cosa differente dalla reazione al prodotto? Lei che ne pensa?
 
FG - La reazione del consumatore ( che in questo caso chiamerei shopper ) nel pdv è certamente molto più complessa e articolata rispetto a quella che si può verificare nella fruizione di una pubblicità, di qualunque genere. L’emotività nel pdv è iperstimolata, dapprima dall’ambiente, poi dalla ricerca e infine dalla decisione di acquisto. La iperstimlazione è così elevata da impedire di fatto la possibilità di acquisire tutte o parte delle informazioni che costituiscono il magma fluido della comunicazione in store. Ritengo che lo shopper, o meglio la sua mente, si attivi solo nei momenti in cui occorre, quindi nella fase terminale della decisione (davanti allo scaffale) in quella zona oscura che Procter & Gamble ha definito la fase del FMOT ( First Moment of Truth ) vale a dire il primo momento della verità ( il secondo, lo SMOT, avviene a casa quando lo shopper diventa consumatore e prova il prodotto per la prima volta.)
2 Visto e considerato che oggi siamo nella cosiddetta società della comunicazione, secondo lei il consumatore potrebbe essere più “allenato” alla comunicazione emozionale e quindi meno influenzabile?
 
FG - Credo di si, l’ipotesi su cui stiamo lavorando in 1to1lab è che la nostra attività cognitiva ed emozionale avvenga almeno su due livelli, il primo è quello del coinvolgimento parziale, della lettura scorsiva, dei chunk, dei prototipi e dell’inferenza, il secondo, invece, è quello che ci interessa, che attiva non solo l’attenzione ma ci impegna su molti fronti come la capacità di evocare ricordi, stimoli, emozioni, brand awareness ecc… o di apprendere nuovi particolari che vanno ad aggiornare i nostri schemi cognitivi (approfondire questo concetto nella teoria della comunicazione, è importante!). Se applichiamo la teoria della comunicazione classica al nostro ragionamento (emittente - messaggio - ricevente dove la comprensione del messaggio avviene attraverso tre fasi attenzione - connotazione - giudizio/accettazione o rifiuto), in realtà ognuno di noi ha la possibilità di decidere se aderire o meno al messaggio e quindi decidere se farsi influenzare oppure no.
 
Pensando alla vita quotidiana a volte accade che ci piacciono dei prodotti ma solo “addosso” ad altre persone, mentre per noi non li compreremmo mai. E’ quello che accade per alcuni prodotti di vestiario, accessori e in generale tutti quei prodotti che in qualche modo hanno una funzione identificante. Quindi l’emozione come si allinea alle “identità”?
 
FG - La domanda è intrigante, grazie. L’emozione è una funzione della nostra comunicazione, rappresentiamo noi stessi, volontariamente o involontariamente, agli altri quindi l’emozione è una forma di rappresentazione del Sé. Il punto è se la funzione identificativa (quella che avviene a fronte di uno stimolo esterno, come un abito indossato da un altro ) può attivare emozioni ( si certamente, compresa l’invidia!) ma anche il desiderio di emulazione ( si certo, è come se guardassimo una vetrina dove è esposto l’abito della vita ) e di identificazione. In realtà, quando ci immergiamo nella realtà quotidiana, entriamo in contatto con migliaia di persone, attraversiamo luoghi e ambienti diversi, ecc… compiamo tale esercizio di verifica della nostra identità centinaia di volte, di tale attività solo la minima parte arriva alla sfera razionale, della consapevolezza, il resto si sviluppa nei meandri del nostro subconscio.
 
A volte alcuni prodotti ci piacciono perché sono innovativi, la pubblicità è spesso ben fatta e ci emozionano; tuttavia non li compriamo perché preferiamo “andare sul sicuro” scegliendo una marca che già conosciamo e con cui ci siamo trovati bene. Questo spesso accade con i prodotti tecnologici. Quindi secondo lei, l’esperienza d’acquisto precedente, ha un valore superiore rispetto all’emozione?
 
FG - L’emozione è una leva fondamentale nell’acquisto dei beni di lusso, meno per quelli banali. Ciò non toglie che quando acquistiamo un prodotto per la prima volta abbiamo alle spalle una conoscenza della categoria e quindi una esperienza di alcune delle componenti della fruizione del prodotto ( funzione d’uso, dimensione, usabilità ) ma tutte queste variabili sono solo in parte condizionate dalla componente razionale, la parte emozionale agisce comunque e ci porta alle scelte finali. Ragionerei comunque per tipologia di prodotto e per parametri di valutazione ( es. un prodotto cosmetico e il parametro visivo influenzato dal packaging, oppure la pasta e il parametro evocativo del gusto attivato dalla trafilatura a bronzo ecc…)
 5.     Spesso capita che si comprino prodotti non tanto perché ne abbiamo la necessità, ma perché sono “di moda”, oppure hanno una funzione di status symbol e ci servono per apparire o integrarci in un determinato gruppo sociale. Al contrario a volte ci sono prodotti che ci affascinano che ma non compreremmo mai. Perché accade questo? Qual è il rapporto tra emozioni e condizionamento sociale?
 
FG - La moda aiuta e facilita il processo di assimilazione ad un gruppo o una tendenza, ad esempio il fenomeno masstige (massa + prestige) è uno dei megatrend della cultura planetaria, che associa il prodotto di massa allo star system, se si vuole far parte di tale trend occorre entrare in sintonia con i prodotti e i testimonial che lo caratterizzano (quindi emozioni). Credo che nessuno sia fuori dalle mode, anche perché la moda è già insita in ogni prodotto di cui veniamo a conoscenza, naturalmente in modo più o meno rilevante.
 
6.      Un altro caso che spesso si presenta ai consumatori è che magari sono attratti da un prodotto e anche dalla pubblicità, ma purtroppo tale prodotto è poco usabile o difficile da comprendere (es. la caffettiera del masochista, la bicicletta bifronte e lo spremi agrumi in oro massello di Philippe Stark). Quindi secondo lei qual è il rapporto tra emozione, usabilità ed esperienza d’uso?
 
FG - Alla fine l’esperienza d’uso vince nella reiterazione dell’acquisto. La caffettiera è un oggetto di arredamento e svolge una funzione specifica. Comunque la relazione tra emozione ed esperienza d’uso è una componente essenziale per determinare l’intensità e l’engagement che stanno alla base di un processo di apprendimento, anche dell’uso di un prodotto.
 
7.      Altra cosa che può accadere è che a volte ci sono oggetti di cui riconosco le qualità, le diverse funzioni, mi piace la comunicazione, mi piace il design, ma al momento dell’acquisto provo una sorta di repulsione automatica per il brand. Quali altri fattori influiscono? In tali casi una ricerca sulle emozioni fallirebbe?
 
FG - Bella domanda. Se il brand non rappresenta i valori espressi dal prodotto, c’è un problema serio alla fonte. Il brand dovrebbe aggiungere valore, anche emozionale, alla percezione funzionale del prodotto a alla comunicazione. Quindi, credo che in una situazione del genere l’azienda dovrebbe mandare a casa il direttore marketing o chi ha sviluppato la comunicazione del prodotto!
 
8.      Quali sono secondo lei i prodotti per cui le emozioni della comunicazione sono maggiormente importanti? L’impulso d’acquisto è maggiore per i prodotti di largo consumo e nei casi in cui l’intercambiabilità della marca è molto alta?
FG - Premetto che non credo che esista davvero l’impulso come leva razionale dello shopping. Se è vero che il 90% delle decisioni viene preso a livello subconscio o preconscio, allora ciò che noi definiamo come impulso fa riferimento al restante 10% della catena della decisione, quella razionale di cui siamo consapevoli. Mi spiego, perché l’affermazione è forte. La quasi totalità delle nostre decisioni che precedono un’azione sono predeterminate. La nostra intelligenza di manifesta anche sviluppando la capacità predittiva ( adesso giro la maniglia e la porta si aprirà, adesso compro quel prodotto perché mi aspetto di trovare una crema di un certo tipo e così via…). Ma su questo punto dovremo fare molte riflessioni nei prossimi mesi e approfondire. Comunque penso che i prodotti che possono trarre giovamento dalla dimensione emozionale dello shopping sono certamente quelli di lusso e di elevato valore ( compresa l’auto e la casa, ma anche un viaggio, un regalo per la persona amata, anche se si tratta di un semplice libro… - quante volte abbiamo provato piacere, il fremito di un momento, nel comprare il pensierino per la persona amata, per una persona cara? ). 
 
9.      Qual è il rapporto tra prezzo e emozioni?
FG - La relazione c’è, è legata all’idea di fare un affare, di cogliere l’occasione irripetibile, oppure di considerare il prezzo eccessivo rispetto ai vantaggi derivanti dal prodotto e così via.
 
10. Cos’è secondo lei che genera maggiore impatto emozionale nei consumatori: il prodotto o il brand? Ogilvy diceva:“vendiamo il prodotto oggi e la marca per domani.”Lei che ne pensa?
 
FG - Mi piace la proposizione di Ogilvy, sicuramente il prodotto è la componente più engaging in una pubblicità, la marca viene dopo. Quindi direi che il brand aumenta la soglia di trust del prodotto, ma se questo è un pessimo prodotto ricadiamo nel caso di prima…

11. James Twitchell, un professore di pubblicità all’Università della Florida si chiede se il neuromarketing non sia un’altra modalità per giustificare i soldi che i pubblicitari chiedono ai propri clienti: “abbi fiducia cliente, abbiamo i dati, abbiamo condotto i “neurotest”, sappiamo quello che facciamo”. Che ne pensa riguardo a questa affermazione?
FG - Devo rispondere seriamente oppure posso permettermi di giocare un po’? Rispondo seriamente. Non amo parlare di “neurotest” perché sembra proprio una forma di manipolazione del cervello e dei desideri. Non è così. Io penso che in una società in cui l’informazione ha generato inquinamento e overload, magari anche a causa dell’eccesso di prodotti ma sicuramente per l’eccesso di pessima comunicazione e di proposizione di mondi sempre più staccati dalla realtà, pensare che il “neurotest” risolva ogni dubbio è falso. Pensare che le ricerche non verbali ( preferisco chiamarle così) utilizzando biofeedback, eye-tracking ecc. possono aiutare a capire come rendere più chiara e coinvolgente la comunicazione (riducendo l’entropia) mi sembra un obiettivo etico, prima che economico. Quindi io direi al consumatore, “guarda che abbiamo fatto un test non verbale per ridurre la complessità percettiva e avvicinare di più questo prodotto ai tuoi desideri”.
12. Qual è oggi l’investimento delle aziende nel neuromarketing? Siamo ancora in fase di sperimentazione o c’è già un’implementazione concreta di queste ricerche?
 
FG L’investimento è basso, guardando al nostro fatturato (ed essendo praticamente quasi gli unici a proporre questo approccio, ahime!). Ma in futuro tale modalità di ricerca è destinata a crescere.
13. È già stata effettuata qualche sperimentazione con comunicazioni diverse da quella commerciale? Qual è il contributo che questo tipo di ricerca può dare alla pubblicità sociale? Secondo lei si rivelerebbe utile per costruire campagne mirate a una maggiore sensibilizzazione sociale?
 
FG - Si, abbiamo fatto qualche piccola sperimentazione, ma siamo ancora ai primordi. Ben vengano le idee applicative.
 
Grazie per la bella chiacchierata e auguri per la sua tesi. Sono molto curioso di vederla naturalmente e, magari, di incontrarci alla prima occasione.
 
Commento all’intervista
 
   Dalle risposte del Professor Gallucci sono emerse alcune importanti questioni e spunti di riflessione sul tema del marketing emozionale che sono degne di un commento.
   Innanzitutto l’esperto ci offre un chiarimento riguardo ad un interrogativo che viene quasi spontaneo porsi: se a livello emotivo ci siano delle differenze tra lo shopper all’interno di un punto di vendita ed il fruitore di un messaggio pubblicitario. In entrambi i contesti sono implicati dei processi attentivi ed emozionali, ma sono differenti.
   Di fronte ad un messaggio pubblicitario gli stimoli sono minori ed il soggetto riesce a catturarli tutti o quasi; nel punto di vendita gli input sono un’infinità ed il soggetto deve attivare quella che dai cognitivisti viene definita “attenzione selettiva”, ovvero la capacità di selezionare degli stimoli interessanti e tralasciarne altri. Quindi, in sostanza, Gallucci conferma che il processo nel punto di vendita è più complesso in quanto la nostra mente è catturata, anche involontariamente, da stimoli diversi, quindi il soggetto focalizza l’attenzione nel momento della scelta d’acquisto del prodotto.
   Probabilmente, come anche lo studioso ci conferma, oggigiorno, essendo nella cosiddetta società della comunicazione, il consumatore è più allenato e quindi meno influenzabile ai messaggi emozionali, tuttavia è anche vero che il 90% delle nostre decisioni è guidato da fattori inconsci e legati ad emozioni specifiche.
   Ad esempio, per quanto riguarda la funzione identificativa della pubblicità, noi compriamo un prodotto per soddisfare un desiderio di identificazione e di emulazione. In realtà noi proviamo tali desideri anche nell’interazione quotidiana con altre persone (ammirando un determinato prodotto su di loro). Ma in tale contesto il bisogno di soddisfare questo desiderio rimane soltanto ad un livello inconscio, perché consapevolmente non sempre apprezziamo il prodotto per noi stessi, quindi il risultato è che non passiamo all’azione, ossia all’acquisto.
   Di funzione identificativa si può parlare anche in riferimento alla moda. Gallucci ci spiega che la moda aiuta e facilita il processo di integrazione ad un gruppo o una tendenza e cita il fenomeno masstige (massa + prestige) che è una delle tendenze più forti della cultura mondiale, la quale associa il prodotto di massa allo star system. Se si vuole far parte di tale sistema è necessario entrare in sintonia con i prodotti e i testimonial che li rappresentano e che quindi suscitano emozioni positive, in quanto vengono percepiti dai soggetti come necessari per soddisfare il bisogno d’appartenenza.
   Un altro quesito che è sembrato interessante includere in questa intervista è il seguente è se sia più influente, ai fini dell’acquisto, l’esperienza d’uso precedente o l’emozione che ci suscita un prodotto.     L’esperto risponde che nel caso del primo acquisto, soprattutto dei beni di lusso e quelli di elevato valore emotivo (ad esempio un regalo per una persona cara) l’emozione ha un ruolo preponderante; è pur vero comunque che il soggetto ha già delle informazioni riguardo a quella categoria merceologica o alle funzionalità del prodotto.
   Per quanto riguarda invece la reiterazione dell’acquisto, Gallucci sottolinea come l’esperienza d’uso abbia un peso maggiore del fattore emotivo. Comunque, anche se ci sono delle differenze tra primo acquisto e reiterazione, emozione ed esperienza d’uso sono due facce della stessa medaglia che influenzano la scelta del prodotto e quindi il ricordo e il giudizio relativo a quest’ultimo.
   Un altro tema di cui si è parlato nell’intervista è quello che riguarda il rapporto tra brand e prodotto. È stato chiesto a Gallucci come mai a volte ci piaccia un prodotto ma proviamo una sorta di repulsione per il brand. Come tutti gli studiosi di marketing e pubblicità sanno, il brand di un’azienda è qualcosa di più del nome o del logo. È quello che il mercato percepisce di un’azienda, l’insieme dei suoi valori e delle sue scelte, e pervade ogni sua forma di comunicazione. Quindi il brand deve allinearsi al prodotto e viceversa. Se si verifica il caso sopra citato vuol dire che c’è stato un problema nella fase di ricerca, di identificazione del target e di sviluppo della comunicazione.
   Altra questione da non tralasciare è il rapporto tra prezzo ed emozione. Spesso l’idea di cogliere una promozione e di non perdere l’occasione suscita l’emozione legata al fare un affare e quindi una “cosa giusta al momento giusto”. È più probabile che l’emozione sia negativa di fronte ad un prezzo eccessivo rispetto alla qualità e ai benefici del prodotto.
   James Twitchell ha avanzato l’ipotesi secondo la quale il neuromarketing sarebbe legato esclusivamente ad interessi economici delle agenzie nei confronti delle imprese; è stato così interessante sapere da Gallucci cosa ne pensasse in proposito, essendo un esperto che vede nel neuromarketing una grande opportunità sia per le aziende sia per il consumatore finale i cui desideri possono essere maggiormente compresi e quindi soddisfatti.   
L’esperto vede in questa nuove metodologie non verbali, per indagare sull’impatto emozionale, un obiettivo “etico” prima ancora che economico; si tratta cioè di cogliere, valorizzare ed accontentare i bisogni del consumatore in una società sovraccarica di informazioni e soprattutto senza manipolarlo.
   Malgrado le grandi potenzialità di queste ricerche l’applicazione concreta in Italia ancora è piuttosto scarsa ma è destinata a crescere, non solo in ambito commerciale ma anche in ambiti diversi ad esempio quello sociale.
 
 
Giovanna Ricci


Per maggiori approfondimenti sul rapporto tra attenzione automatica e focalizzate fare riferimento alla Teoria del “Coktail Party” di Cherry, 1953.