La comunicazione al lavoro: fiera dell'ottimismo
ARTICOLO DI AMEDEO FRANCESCO MOSCAUna trentina di relatori succedutisi in quasi cinque ore per dire un qualcosa che Pina Lalli, nel suo intervento conclusivo, ha riassunto in cinque o dieci minuti. Salva qualche reticenza esposta piuttosto timidamente praticamente non si è fatto altro che sfoderare i dati dell'Istat, del Censis, di AlmaLaurea e degli osservatòri delle singole università, piuttosto confortanti, sull'occupabilità dei laureati in Scienze della comunicazione. Abbiamo voti più alti di fino a 8 punti rispetto alla media del gruppo politico- sociale (da cui, guarda caso, sono esclusi i corsi in Scienze del servizio sociale), quasi la metà di noi si laurea in corso contro una media generale che raggiunge uno stentato 12%, a 12 mesi dalla laurea lavoriamo quasi tutti e impieghiamo mediamente due mesi meno degli altri a trovare lavoro.
Tra di
noi praticamente non esistono disoccupati cronici,
poiché i tre quarti di chi non lavora a un anno dal
conseguimento del titolo sta proseguendo
l'istruzione o la formazione (tra questi, visto che la
rilevazione è del 2003, rientrano probabilmente in
gran parte i laureati del nuovo ordinamento, che
stanno proseguendo con un master o una laurea
specialistica). I dati sull'occupazione dei laureati in
Scienze della comunicazione si avvicinano cioè a
quelli di laureati tradizionalmente forti come quelli
delle facoltà di Economia e Ingegneria, con il
vantaggio che noi conseguiamo il titolo mediamente
intorno ai 25 anni mentre loro superano i 27.
Oltretutto il lavoro dei laureati in Comunicazione è
quasi sempre coerente con gli studi compiuti, con
un livello di soddisfazione che si avvicina alla
totalità (oltre il 90%) contro un 70% scarso della
media generale.
Insomma 'sti corsi di
Comunicazione sarebbero perfetti; c'è qualcosa da
migliorare, ma la situazione è già invidiabile.
E la
cosa che sorprende di più è che gli studenti e i
laureati che sedevano al banco dei relatori hanno
confermato tutto ciò, riducendo i loro interventi ad
apologie degli atenei in cui studiano o si sono
laureati.
Ovviamente la situazione non è
esattamente come è stata presentata alla
ComFerenza.
Bastava farsi una chiacchierata con i numerosi studenti che sedevano tra il pubblico, non necessariamente escludendo chi aveva il privilegio di effettuare registrazioni per conto delle rispettive radio e televisioni di facoltà oppure di fare propaganda mediante distribuzione di guide e volantini, da cui ci si aspetterebbe un più alto grado di soddisfazione. La delusione per gli studi intrapresi o compiuti è un sentimento diffuso tra gli studenti e i laureati in Comunicazione. A nessuno è venuto in mente che il motivo per cui tali studenti si laureano prima e con voti più alti è che probabilmente i loro corsi sono più facili (o, per quel che concerne quelli a numero programmato, sono meno affollati e quindi burocraticamente più snelli), nessuno ha pensato che lavorano tutti ma che magari lavorano gratis o quasigratis, nessuno si è posto il dubbio sul significato del termine "comunicazione" (lavorano tutti nel mondo della comunicazione... forse perché tutto è comunicazione) e nessuno si è accorto che chi davvero lavora, seriamente, nella comunicazione lo fa da prima, molto prima che conseguisse la laurea.
Qualche tempo fa l'Istat parlava
di «inflazione reale» e «inflazione percepita»:
qualcuno ha avuto il coraggio di fare la stessa
distinzione per la disoccupazione dei laureati in
Scienze della comunicazione. Pina, la studentessa-
tipo dell'Università di Salerno, durante il corso di
studi avrebbe la convinzione che il titolo che sta per
conseguire sia sottoconsiderato sul mercato del
lavoro, ma se non si scoraggerà entro un anno dalla
laurea rileverà che tale convinzione è sbagliata
perché sarà assunta a tempo indeterminato
nientedimeno che in una testata giornalistica.
Inutile dire che i giornalisti presenti in sala hanno
storto il naso.
E, a proposito di giornalisti, inutile
dire che i rappresentanti dell'Ordine non hanno fatto
che confermare le loro aspirazioni lobbistiche,
auspicandosi una riforma a livello europeo che
prenda a modello la legge italiana 69 del '63, tanto
contestata e tacciata di incostituzionalità, quando in
tutto il continente gli unici stati ove la professione è
regolamentata sono appunto l'Italia e l'Ungheria e
l'Unione Europea va in direzione dichiaratamente
opposta, cioè abolizione degli ordini e
liberalizzazione delle professioni intellettuali.
Roìdi
ha inoltre aggiunto che l'Ordine va in direzione di
un'ulteriore regolamentazione della professione,
introducendo l'obbligatorietà di una formazione
specifica, di tipo accademico (laurea) e
professionale (master o scuola di
giornalismo).
Tutte cose già sentite, insomma,
in questo secondo raduno al Com-PA del
Coordinamento nazionale dei corsi di laurea in
Scienze della comunicazione. Pochi gli interventi
interessanti, tra cui quello di Michele
Mirabella, che da alcuni anni insegna a
contratto materie afferenti al settore scientifico-
disciplinare SPS/08 (ha insegnato Sociologia della
comunicazione all'Università di Lecce e attualmente
tiene insegnamenti di Teoria e tecniche delle
comunicazioni di massa all'Università di Bari e
Ideazione e produzione radiotelevisive alla Iulm).
Mirabella ha sottolineato quanto è importante la
passione, la vocazione a svolgere determinate
professioni, a prescindere dal titolo di studio. Il
quale costituisce un complemento, più che un
supporto.
AMEDEO FRANCESCO MOSCA