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La bussola e le suole

29/10/2004 27135 lettori
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Il primo decennale dei Corsi di Laurea e delle Facoltà di Scienze della Comunicazione è stato un evento che non ha suscitato troppo clamore sui media non specializzati, finendo col diventare un momento di gaudio per esperti del settore e non l’attestazione di un traguardo condivisibile da strati più ampi della società. Caduto un po’ nella trappola della retorica autocelebrativa, l’avvenimento è stato sterilizzato dalla solita mole di dati e di statistiche che non sempre rendono più chiaro il contesto, ma anzi, tendono a fare di esso una nebulosa oscura che confonde invece di rendere limpido, rimescola le carte al posto di mostrarle sul tavolo.

Atteggiamento questo parzialmente rinvenibile nell’articolo La comunicazione lascia il segno di Mario Morcellini, apparso nel numero di Problemi dell’informazione del settembre 2003. Una posizione plausibile, sosteniamo noi, da parte di chi ha svolto un ruolo attivo e positivo nella progettazione di una specialità di studi il cui bisogno si era fatto fin troppo urgente; temiamo però che basare la reale efficienza di un corso di laurea solamente su dati indicanti il numero di iscritti, o i primi trend nazionali degli sbocchi professionali offerti, sia un modo parziale di descrivere questa realtà universitaria. Riteniamo infatti che, a fronte di una preparazione di tutto rispetto, ottenuta anche mediante l’apporto dei “docenti a contratto”, professionisti esterni all’università che collaborano con gli atenei sulla base del loro continuo aggiornamento nei diversi ambiti disciplinari, vi sia, all’interno dell’“universo comunicazione”, un profondo stato di scarsa lucidità.

Attriti tra le diverse parti, interessi discrepanti, saturazione di un settore economico, ma soprattutto la traiettoria ondivaga delle diverse università, da più parti hanno lasciato sgomenti i professionisti dell’informazione, ed in primis l’Ordine dei giornalisti.

Questo per un semplice motivo: a fronte di un lavoro che doveva portare in breve tempo alla creazione di una nuova figura professionale esperta dei mezzi di comunicazione di massa, oggi la situazione è radicalmente mutata. Si sono sovrapposti i concetti di informazione (servizio che risponde ai bisogni di conoscenza di un pubblico, prodotto con metodi controllati, in base a criteri espliciti) e comunicazione (trasmettere messaggi che servono ad orientare il modo di pensare di chi li riceve), col risultato di trasformare Scienze della Comunicazione in una fucina di ibridi che si dividono, in soluzione di continuità, tra marketing e mass media. E questo senza che gli atenei abbiano saputo dare forti ragguagli a chi – l’Ordine appunto – aveva chiesto un Corso di Laurea per fermare l’emorragia di transfughi provenienti da tutte le Facoltà (come ad esempio Scienze Politiche) i cui sbocchi professionali erano già saturi da anni.

Le statistiche di Morcellini parlano chiaro: la comunicazione pubblica e aziendale si è imposta largamente sullo studio dei media e dei loro meccanismi. A livello nazionale, il 19% della preparazione verte sulle cosiddette materie di base – ossia il famoso biennio del vecchio ordinamento, per chi lo ha conosciuto – mentre un sostanzioso 45% è appannaggio delle strategie comunicative di aziende, enti pubblici e culturali, relazioni internazionali. Non che questi settori non siano nobili; semplicemente sono il segno che professionisti e Università non si sono capiti. Al giornalismo è dedicato uno scarno 9%, mentre sono i new media a rimpinguare questo misero dato con il loro 24%, che li celebra quindi come settore di studi maggiormente sviscerato.

La conseguente diffidenza dell’Ordine dei Giornalisti per ora si sta concretizzando in una direzione, che per quanto draconiana possa sembrare, almeno ha il vantaggio di rendere chiarezza e di distinguere due ambiti di studi dalla parentela più lontana di quanto possa sembrare. In questo senso si colloca infatti l’istituzione a spron battuto dei Master in giornalismo (tre solo questo anno: Torino e Potenza, con Padova ancora in lista d’attesa, ma è solo questione di giorni). Queste selettive istituzioni dal 2005 in poi, anno in cui da più parti si paventa una silenziosa riforma dei requisiti per l’accesso all’Albo, dovranno riportare nelle mani dell’Ordine un processo sfuggito di mano, grazie anche alla scaltra complicità con cui, da più parti, si è marciato sul caos che continua ad accomunare chi vuole formare l’opinione pubblica e chi invece a venderti un prodotto e uno stile di vita.

Come interpretare altrimenti la nascita delle facoltà di Relazioni Pubbliche, veri e propri duplicati del nostro Corso, o il maggior sostegno che l’indirizzo delle strategie di vendita ha sempre ricevuto?

Il pastrocchio degli stage, che non distinguono una testata giornalistica da un Ufficio stampa aziendale, si commenta da sé. Tale dislivello, dicono i bene informati, verrà superato dall’Ordine, non riconoscendo più esperienze che facciano di giornalismo e pubblicità un unico disordinato ammasso, aggirando peraltro diversi codici di autoregolamentazione professionale.

L’ottimismo è sempre l’atteggiamento più consono ad ogni situazione. Forse, in fondo, è vera la massima che descrive il buon giornalista come colui che più di tutti sa domandare e consumare le suole delle scarpe, e forse in fondo questa chiusura nei confronti del mondo universitario è passeggera e destinata ad esaurirsi in un breve lasso di tempo. Tuttavia, non possiamo non pensare come, in questo caso, interessi di borgata abbiano compromesso una collaborazione che aveva iniziato a dare i propri frutti, e che poteva portare ad una sinergia in grado di contrapporsi ad elitarismi e clientelarismi vari. Scuole in grado di riformare il mondo del giornalismo, sempre più schiacciato dagli interessi degli editori e sempre meno interessato ad essere l’«anello scomodo» di una società, l’agente sociale che produce domande e che interroga e punzecchia l’opinione pubblica.

Quindi i laureati dovranno portare sempre con sé un paio di scarpe di ricambio, perché la strada da percorrere sarà forse ancora più tortuosa. Probabilmente, date queste premesse, più di uno studente sta già cominciando a pensare che, all’interno del mondo accademico, qualcuno ci abbia fatto perdere la bussola in modo premeditato. E non da oggi.

di Piero Babudro