Intervista a Kuno Windisch [parte I]
A.B. > Buon giorno, signor Kuno. Innanzitutto la ringrazio di avere accettato di partecipare a questa intervista, considerata anche la mole dei suoi impegni di lavoro. In questo momento, a che cosa si sta dedicando?
K.W. > Essendo libero professionista con varie attività diverse, e passando una vita inquieta con la filosofia secondo cui, avendo una sola vita a disposizione mia sarebbe un grande peccato dedicarla ad una sola meta, mi trovo sempre impegolato in innumerevoli attività diverse.
Innanzi tutto mi occupo dell’acquisizione di nuove cariche di teatro aziendale in Germania, in Italia e in Svizzera. Sto preparando un paio di workshop di teatro aziendale che sono già in agenda per i prossimi mesi. Sono coinvolto in un progetto di coaching in una grande azienda.
Sto facendo pubblicità per un mio pezzo teatrale, che offro a case editrici, teatri e registi. L’ho scritto un anno fa, impressionato da un omicidio avvenuto a Latisana, in Italia. Il pezzo è un’ipotesi su come un reato del genere potrebbe avvenire. Il testo è già stato presentato come lettura scenica al teatro statale di Norimberga e ha ricevuto ottime critiche nei feuilleton.
Ho cominciato a scrivere un pezzo teatrale che si svolgerà nell’ambito del business.
Sto riflettendo quando, dove e che cosa potrei mettere in scena nel futuro. Fra l’altro questa estate ho messo in scena all’aperto La locandiera di Goldoni – summa cum laude, se si può dire.
Infine ho anche una vita privata.
A.B. > Leggendo le sue note biografiche, lei ha esperienza di attore e regista teatrale. Come si poterebbe, secondo lei, esistere ancora di più nel teatro che non recitando e mettendo in scena?
K.W. > Come prima cosa, mettiamo in chiaro i termini: c’è una piccola differenza fra quello che la maggior parte dei teatranti italiani pensano se parlano di teatro e quello che pensano, per esempio, tedeschi, americani e inglesi (per precisarmi: i pensieri e le parole vanno mano nella mano. Si dice quello che si pensa e si pensa quello che si dice).
In inglese si parla di acting, in tedesco di giocare (accennando all’homo ludens) e di far finta (schauspielen). In entrambe le lingue si parla quindi dell'attore e della sua arte e della sua tecnica, mentre in italiano si parla di recitazione e di interpretazione.
La differenza è che, mentre i termini indo-germanici descrivono un atto di svago, di incarnazione di un personaggio diverso, di un tipo di schizofrenia passeggera, dell’abbandono temporaneo del proprio io, la cultura romanza mette al centro l’autore. Il compito dell’attore, secondo quest’ultimo concetto, è di citare quello che l’autore ha scritto e poi di rappresentare finalmente le idee del regista. Il primo è il concetto del teatro degli attori, l’altro quello del teatro degli autori e registi.
Sottolineo: non sto né valutando né giudicando. Parlo solo dell’oggettiva differenza fra due parole, dietro le quali si nascondono due punti di vista e due culture diverse.
Torno alla domanda. Esistere nel teatro, in base alla mia idea di teatro, include il processo quasi obbligatorio dell’abbandono temporaneo del proprio io.
Se parlo dell’abbandono, se parlo di identità diverse, parlo comunque sempre di un livello che si aggira attorno a una percentuale del 50%. Oltre ai ruoli, naturalmente, resta sempre l’identità, autenticità dell’attore. La grande magia di creare un ruolo consiste nella scoperta della massima congruenza fra ruolo e io. Se ti capitasse di perdere l’io, rischieresti di partire per sempre. E non arriveresti a un’identità nuova e bella, ben definita e vivibile, basata su storia ed esperienza come lo è la vita reale, perché rimarrebbe comunque un’identità artificiale, un po’ come un’amnesia parziale.
Mi sento quasi di avvertirla. La forma più piena di fare il teatro, come dice lei, è comunque sempre un coltello a due lame: potersi lasciare andare e sapere anche dove si trova il salvagente!
In quanto a me, c’è da aggiungere che, oltre a essere attore e regista, sono anche stato direttore di un teatro. Quest’ultimo ruolo, con tutti i suoi obblighi reali, amministrativi e così via, mi è sempre servito per rimanere con i piedi per terra.
A.B. > Quando, dove, come e perché nasce la sua attività dedicata al teatro aziendale?
K.W. > Nel
Troppi teatranti si compiacciono nel ritirarsi nella loro torre d’avorio, mentre il loro compito sarebbe il contrario: dare specchio alla realtà, servirla in qualità di commentatore. Ma per dare specchio alla realtà bisogna conoscerla davvero partendo dalla propria esperienza e non da distante osservatore.
Quindi, dopo la fine del contratto del mio ultimo incarico da teatrante “full time”, avevo voglia di conoscere anche la vita al di là della torre. Mi sono iscritto a una scuola privata di management per diventare esperto del personale, concentrandomi sin dall’inizio sulla formazione e a quello che da noi si chiama “sviluppo del personale e dell’organizzazione”.
Inoltre, interessandomi di psicologia da ormai vent’anni, ho passato un esame da terapeuta.
Dopo la scuola di management ho trascorso un anno o due in qualità di formatore classico: processi noiosi, i soliti lucidi, i partecipanti che fanno il sonnellino dopo pranzo… Ricordandomi che sapevo fare teatro, combinai teatro e formazione. Un processo con una sua logica.
Ammetto che, come a tutti i teatranti, anche a me erano piaciuti le buone critiche e gli applausi. Mi piacevano e mi appagavano. E posso dire che oggi mi appagano altrettanto i buoni feedback dei partecipanti dei miei workshop. Non trovo, infatti, che i due lavori siano molto diversi: prendi per mano i partecipanti e gli dai sostegno per fare qualche passo decisivo in avanti.
È così che definisco anche
Per mettere in scena, ci vuole un’idea precisa, un concetto chiaro e un accordo valevole fra gli interessati, un accordo che rende conto di quello che può e non può succedere.
Il regista interviene quando gli attori si smarriscono o quando lo chiamano. Oppure s'immischia di propria iniziativa quando gli attori vanno oltre i limiti del concetto e dell’accordo o quando quello che fanno non è coerente.
Sarà un concetto molto cauto e umile della regia. Ma lo preferisco alla vanità di tanti registi, alla loro gelosia con la quale si dichiarano custodi delle loro idee “geniali”, alla loro avidità di onnipotenza, che in realtà non dovrebbe interessare a nessuno, perché il regista non è un re, bensì un servo.
Non mi è mai interessata
A.B. > Qual è la sua definizione personale di teatro aziendale?
K.W. > Con il teatro aziendale si apre un sipario sui temi dell’azienda e delle persone attraverso scene scritte dai partecipanti, oppure improvvisate o con il supporto di testi teatrali della letteratura mondiale, idonei alla situazione, con lo scopo di affrontare e risolvere “temi caldi”.
Il teatro aziendale usa il metodo teatrale come veicolo per favorire i processi di (auto-)apprendimento. I protagonisti sono esclusivamente il cliente e i suoi collaboratori.
Il teatro aziendale è un metodo deduttivo e completo perché coinvolge corpo, mente e anima. Apprendere diventa fare un’esperienza.
I passi del teatro aziendale sono tre:
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Il ruolo impara dall’attore che lo rappresenta (il quale impara a conoscere‚ quindi, tutti i suoi punti forti e deboli);
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l’attore, insieme al facilitatore, ottimizza il ruolo e va di nuovo in scena;
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l’attore impara dal ruolo ottimizzato.
Con il teatro aziendale possono essere trattati i temi aziendali tipici:
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ottimizzare la prestazione quotidiana;
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sviluppare competenze specialistiche, sociali, di metodo, di apprendimento e la fantasia;
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armonizzare il clima dei team;
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avviare e facilitare i processi riorganizzativi e di cambiamento;
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risolvere i conflitti di ogni genere;
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costruire, comunicare e radicare le strategie del futuro;
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conciliare culture e filosofie imprenditoriali diverse;
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offrire ai collaboratori coaching individuale e di gruppo;
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presentare prodotti e novità in modo emozionante;
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scegliere il personale per le analisi del potenziale;
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organizzare eventi e happening.
Il teatro aziendale è adatto anche per interventi immediati, da vigili del fuoco, qualora sorgessero problemi organizzativi inaspettati che richiedono una soluzione rapida.
A.B. > A suo parere, quali sono i punti di contatto tra teatro e azienda?
K.W. > I teatri sono delle aziende. Nelle aziende si svolgono un mucchio di scene.
Tutta la vita è una messa in scena. Ci troviamo sempre su un palcoscenico. Nel momento in cui siamo convinti di lasciarlo, ci troviamo già nel successivo senza magari essercene resi conto.
Voglio dire, nella società industrializzata ci sono rimasti, purtroppo, solo pochi momenti di autenticità. So che questa affermazione non suona tanto positiva. Ma ormai è così. E non vedo nessuna possibilità per girare all’indietro
Un altro aspetto della sua domanda potrebbe concernere le strutture interne (gerarchia, ritrovamento delle decisioni, cultura, rapporti interpersonali, stili di leadership, ecc.) dei teatri, che non sono per niente diverse da quelle che esistono nelle aziende. Anzi, tanti teatri, almeno in Germania, sono l’ultimo rifugio del feudalesimo e superano di gran lunga ogni possibile forma di repressione, interdizione del collaboratore, cinismo e arbitrio che possa esistere in un’azienda moderna. O meglio, un’azienda moderna non si potrebbe permettere le strutture pietrificate di tanti teatri.
A.B. > Perché pone spesso il focus sul connubio delle locuzioni teatro aziendale e metodo per i protagonisti?
K.W. > La formazione aziendale classica, come anche quella scolastica, è, purtroppo, molto spesso noiosissima perché l’apprendimento, se mai ce ne fosse, si basa unicamente su processi intellettuali, lasciando al di fuori corpo e anima (intendendo le emozioni e la forza auto-formativa della curiosità, con la quale siamo nati noi tutti). Anzi, ritengo la formazione classica il “killer” principale di ogni curiosità e motivazione di apprendimento.
Il teatro aziendale è, da questo punto di vista, un metodo per i protagonisti. Sono i partecipanti (gli “allievi”, se vuole) stessi che entrano in scena, che si mettono in gioco, che si servono, per così dire, di loro stessi (in modo complessivo, unendo intelletto, anima e corpo) per portare avanti il processo. I partecipanti non apprendono ma fanno delle esperienze (sceniche) che, da parte loro, hanno un effetto istruttivo. Il formatore diventa facilitatore, accompagnatore, moderatore del processo dell’auto-apprendimento. La parte attiva passa dal formatore al partecipante. Quindi i partecipanti stessi sono i protagonisti del processo!
Inoltre chi ha il coraggio di entrare sul palcoscenico e di esibirsi in coram pubblicam è un protagonista già per definizione, no?
[continua: parte II]
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Per contattare Kuno Windisch:
E-mail: kuno.windisch@tiscali.de
Telefono: +49 201 9990010
Cellulare: +49 179 3974480