Bentornato. Accedi all'area riservata







Non ti ricordi i dati di accesso?Recupera i tuoi dati

Crea il tuo account

2 SHARES

Intervista a Paolo Vergnani

06/12/2005 18955 lettori
6 minuti

A.B. > Buon giorno Paolo. Innanzitutto la ringrazio di avere accettato di partecipare a questa intervista, considerata anche la mole dei suoi impegni di lavoro. In questo momento a che cosa si sta dedicando?

 

P.V. > Ho appena terminato il debutto di Diritti in campo tratto dall’omonimo libro di Daniele Scaglione e con la regia di Francesco Brandi. Abbiamo debuttato dal 9 al 13 di novembre all’Arena del Sole di Bologna. Una faticaccia ma adesso siamo soddisfatti.

 

 

A.B. > Lei ha esperienza di attore teatrale e di consulente. Ritiene che queste due attività siano complementari per esistere davvero nel teatro, per viverlo nella sua forma più piena e comprenderlo a fondo?

 

P.V. > Le poche competenze da attore me le sto sudando faticosamente. Proprio perché il dato di fatto è che al momento sono un consulente che cerca di utilizzare il mondo del teatro, mentre la nuova dimensione, sostanzialmente esterna al teatro d’impresa, con il pubblico che paga il biglietto, richiede uno standard di qualità, anche estetica, a cui non è semplice aderire.

 

 

A.B. > Quando, dove, come e perché nasce la sua attività dedicata al teatro aziendale?

 

P.V. > Sostanzialmente per caso. Un fax di un amico, Lucio Argano, docente alla Sapienza, con un articolo del Sole 24 Ore che parla del Festival di Nantes e del teatro d’impresa in Francia. Come formatore che cercava qualcosa di nuovo per evitare di cadere nella ripetitività e come figlio di un cantante lirico cresciuto tra le tavole di un teatro non mi serviva altro. Poi il giro a Nantes a conoscere Béatrice Aragou, la madrina del Festival, e Christian Poissonneau, l’inventore del termine teatro d’impresa, e nel luglio del ’97 il primo esperimento.

 

 

A.B. > Qual è la sua definizione personale di teatro aziendale?

 

P.V. > Una tecnica di comunicazione che utilizza strumenti teatrali per diffondere messaggi organizzativi, con finalità che possono essere informative, formative o emotive.

 

 

A.B. > A suo parere, quali sono i punti di contatto tra teatro e azienda?

 

P.V. > Due piani: da un lato il teatro è un organizzazione che funziona con meccanismi ben precisi e in questo caso non è nemmeno una metafora; uno spettacolo teatrale richiede un lavoro assolutamente meticoloso, esistono gerarchie e ruoli straordinariamente definiti. Dall’altro, l’azienda e l’organizzazione sono aspetti della vita e quindi hanno diritto di cittadinanza sul palcoscenico. Inoltre anche il legame tra teatro e formazione è stretto, essendo questa storicamente una delle funzioni del teatro.

 

 

A.B. > Consideriamo l’azienda come palcoscenico sociale. Si può parlare di “universali” nel caso di ciascuna figura professionale che interpreta se stessa? Ossia, lo spessore del ruolo di ogni singolo (settore manageriale o impiegatizio che sia) è uguale in ciascuna azienda, come se esistessero dei tratti caratteristici peculiari?

 

P.V. > A un certo livello di astrazione è possibile tentare di individuare delle costanti. In fondo è quello che fanno le diverse correnti psicologiche quando individuano dei ruoli nella famiglia o nel gruppo. Se questo resta uno strumento consapevole e non un modo per appiattire le differenze può avere qualche utilità pratica.

Del resto anche le disfunzioni organizzative hanno delle costanti. Poi ogni azienda, entrando nel dettaglio, è un meccanismo unico, irripetibile e oltretutto cangiante.

 

 

A.B. > Alcuni ritengono che la risata sia un’espressione di serietà (peraltro è noto che la risata sia l’unica espressione riconosciuta come “universale” in tutte le culture). Mi potrebbe commentare questa affermazione?

 

P.V. > L’alternativa alla risata è il sacro.

Il sacro, in ambiti non sacri come il lavoro, non è una cosa seria. Quindi paradossalmente la risata che abbatte il dogma è uno strumento a favore della ragione, quindi una cosa seria.

Poi, visto che vendiamo un prodotto alle organizzazioni, c’è una soglia in cui non sarebbe funzionale dissacrare. E a questo punto entriamo nella recita che non si svolge sul palcoscenico e accettiamo il gioco delle parti.

In questo il teatro d’impresa ha gli stessi limiti e le stesse contraddizioni della formazione che si dichiara come un mezzo per far crescere l’individuo e renderlo autonomo. Ma sempre fino ad un certo punto funzionale all’organizzazione.

 

 

A.B. > E nella (sub)cultura aziendale, l’atto della risata ha una funzione catartica (catarsi come uno degli elementi primari caratterizzanti il teatro), vero? È una “risata a denti stetti”, che nasce dal contrasto tra ciò che appare e ciò che è o ciò che la forma richiederebbe? O non solo?

 

P.V. > A volte può essere semplicemente una fuga, una manifestazione di intolleranza o una difesa. In altri momenti una presa d’atto di un gioco delle parti che non ha niente da invidiare alla commedia dell’arte.

A volte ha davvero un valore catartico, a volte aiuta a sopravvivere.

Paradossalmente, però, a volte potrebbe risultare più semplice accettare le privazioni ed i sacrifici che l’azienda può richiedere se si prende tutto dannatamente sul serio.

 

 

A.B. > Qual è il suo stato d’animo quando si propone come specchio di una realtà aziendale particolarmente problematica? Perché lei sente suoi i personaggi che sta dirigendo e/o rappresentando, suppongo con una ragionevole certezza…

 

P.V. > Raramente lo faccio in modo diretto. Del resto nessuna azienda pagherebbe per mettere in scena quelle che sono le sue vere mancanze.

Invece quando lo faccio con copioni già scritti, non tarati sulla realtà specifica, e sento quella particolare risata che mi dice che si stanno rivedendo, che sentono che la storia parla di loro, mi fa piacere. Non solo perché lo spettacolo sarà riuscito ma perché, forse, avrà offerto la possibilità di vedere le cose in modo diverso, di chiamarle per nome e forse di innescare i processi che potranno portare a giochi nuovi.

 

 

A.B. > L’uomo racchiude in sé due triadi fondamentali che scaturiscono da due punti di fuga complementari e inscindibili: uomo nella sua totalità come portatore di intelletto, anima e corpo e uomo come motivo, medium (in senso etimologico) e meta del processo teatrale. Unificando questi concetti grazie a un’unica chiave di lettura, quindi, esistere è già calcare un palcoscenico, essere attore del proprio ruolo. È così?

 

P.V. > Sì e abbiamo davanti anche un pubblico. Su questo ha già detto tutto Goffmann in Vita quotidiana come rappresentazione. Il teatro è uno dei pochi luoghi dove la recita è dichiarata e contenuta dentro confini di spazio e tempo.

 

 

A.B. > Come nasce la sua rappresentazione dedicata al mondo aziendale? Ci può raccontare quali sono i passi che affronta quando viene contattato dal management aziendale?

 

P.V. > Un'analisi dei bisogni e del contesto assolutamente simile a quella che si fa quando si progetta un intervento formativo.

Se invece si deve costruire un copione su misura servono molte più cure, diversi interlocutori e ci vuole un bel po’ di tempo, almeno tre mesi.

 

 

A.B. > E quali sono i metodi e le tecniche che solitamente propone?

 

P.V. > Ovviamente dipende da diverse variabili: l’obiettivo, il contesto, il numero di partecipanti. Quando la finalità è formativa. il teatro d’impresa può venire proposto in abbinamento a momenti formativi tradizionali o può rappresentare una cornice in presenza di un tragitto a distanza.

La lezione spettacolo è il nostro prodotto più venduto perché unisce l’efficacia all’economicità, ovviamente parlando di numeri ampi.

In Italia sono meno le possibilità di far recitare i dipendenti. Considerando che le aziende te li lasciano per tempi ristretti, il risultato rischierebbe di essere scadente sul piano estetico. Volendo coinvolgere i partecipanti, preferiamo far creare fotoromanzi o video-clip che, essendo in sé un mezzo kitsch, evitano le cadute di gusto.

 

 

A.B. > In che cosa consiste il “dopo”? Cioè, che cosa accade in seguito alla sua opera di messa in scena, di duplicazione della realtà? Il teatro presenta numerosi parallelismi con l’attività di psicoanalisi, e l’analista non abbandona il paziente dopo avere evidenziato le cause della patologia che sta curando… Quindi qual è la sua prassi di medicazione, se così si può definire?

 

P.V. > Dipende dal patto stipulato. A volte la richiesta è quella di un semplice momento di intrattenimento o di informazione e ha senso anche in quanto fine a se stesso. Se invece è richiesto un intervento che incida sull’organizzazione, il teatro può essere solo una tappa che va integrata con altri passaggi, appunto tradizionali.

Gli unici casi dove l’intervento può restare solo vincolato alla tecnica teatrale è quando viene utilizzato per favorire l’integrazione di un gruppo.

 

 

A.B. > Il teatro aziendale sublima la dimensione temporale poiché guarda al passato vivendo il presente e si proietta verso il futuro, divenendo onnicomprensivo conseguentemente alla fusione delle tre dimensioni del tempo che percepiamo a livello cognitivo. Concorda con questa mia riflessione?

 

P.V. > Si, da solo non mi sarebbe mai venuta in mente, ma se posso la utilizzerei.

 

 

A.B. > Nella sfera aziendale, quali sono gli elementi comportamentali che a suo parere tendono ad agire a livello conscio e a livello inconscio o subconscio? In base alla sua esperienza, che cosa deve essere razionalizzato e condotto verso la sfera del cosciente affinché abbia successo la consapevolezza della propria “auto-guarigione”?

 

P.V. > I meccanismi fondamentali dell’organizzazione sono legati alla definizione di sé in rapporto agli altri. Dal lavoro otteniamo un pezzo notevole della nostra immagine di noi.

La gran parte dei funzionamenti e delle disfunzioni aziendali sono quindi dati dalla dinamica del confronto e in ultima analisi della lotta di potere.

Non parlerei di guarigione, primo perché non sono sicuro che sia patologico, secondo perché il teatro d’impresa non è e non vuole essere terapeutico, terzo perché, se anche lo fossimo, l’effetto sarebbe devastante per l’organizzazione.

Una volta un altissimo dirigente con cui avevo lavorato, incontrato dopo anni, mi abbracciò con una luce nuova negli occhi e mi disse che il lavoro fatto insieme aveva innescato in lui profondi cambiamenti e ora era un uomo felice. Vendeva pesce fritto in una spiaggia della Costa Rica.

 

 

A.B. > Può approfondire il concetto di volere fare leva sui dati di fatto, ovvero sul valore e sulle capacità individuali, piuttosto che sulle presunte colpevolezze di ciascuno? In pratica, chiariamo che il teatro aziendale non è affatto un processo che punta il dito sui colpevoli di determinate situazioni problematiche.

 

P.V. > Per questo la gente si lascia dire le cose più orrende senza entrare in difesa. Siamo a teatro. Per questo può essere complementare alla formazione.

 

 

A.B. > Infine, qual è il ritratto del formatore che lei predilige?

 

P.V. > Quello che non si prende troppo sul serio.

Che si permette di raccontare un suo successo dopo che ha raccontato tre cazzate che ha fatto.

Che riesce a stupirsi dei racconti dei partecipanti e davvero impara qualcosa in ogni classe.

Che riesce a stupire la gente raccontandogli quello che fa ogni giorno.

Che si ricorda che è un privilegiato che viene pagato con cifre improbabili per raccontare favole a gente che almeno finge di lavorare.

Che non perde la curiosità e la voglia di studiare.

Che riesce a fare il formatore solo quando è in aula.

 

 

A.B. > Augurandole un sereno proseguimento di lavoro, auspicando la massima espressione della riflessione e della creatività, la ringrazio per avere accolto il mio invito.

 

P.V. > Grazie a lei.

 

 

*   *   *   *   *

Per saperne di più:

http://www.teatrodimpresa.it

 

 

Arianna Bernardini
Arianna Bernardini


www.communicationvillage.com


www.linkedin.com/in/ariannabernardini