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I love you brand

12/07/2006 19659 lettori
4 minuti
I LOVE YOU BRAND: gli Adolescenti e la religione del Marchio

Negli anni Sessanta i Beatles furono i primi. Poi vennero i Rolling Stones, David Bowie, i Duran Duran, Madonna.Personaggi entrati nell’immaginario giovanile, di cui gli adolescenti erano informatissimi e parlavano continuamente. Se guardiamo agli adolescenti di ora, i discorsi ruotano ugualmente intorno a degli idoli. Anch’essi hanno nomi reali o assumono fantasiosi nomi d’arte. Anch’essi sono in grado di creare forme più o meno accese di proselitismo, da semplice preferenza a vera e propria ossessione. Anch’essi sono invitati ai party più chic, e di loro le pagine dei giornali parlano continuamente. Le nuove star si chiamano Miu Miu, Gucci, l’inossidabile D&G, D-Squared, John Richmond. Come gli idoli in carne ed ossa, sono capaci di trasmettere emozioni, di creare unione all’interno del gruppo, di essere dei veri e propri simboli. Sono un’etichetta cucita all’interno di una maglia, un logo sui jeans, un’insegna luminosa ed austera in una via elegante del centro. Ma allo stesso modo, sembrano capaci di dettare gusti e tendenze degli adolescenti d’oggi più di quanto abbia mai saputo fare la camaleontica Material Girl o il Duca Bianco. I marchi, la nuova religione, la nuova ossessione. E’ la sociologa Alissa Quart ad occuparsi di questa deriva consumistica, denunciando come l’acquisto di abiti firmati occupi gran parte del tempo libero dei teenager americani, spingendoli a lavorare in orario extra-scolastico per pagare il loro costoso hobby in quantità maggiori rispetto agli altri paesi occidentali.

E se prima essi si limitavano all’acquisto di qualche abito griffato, ora questo non basta più: per essere accettato dal “gruppo” è d’obbligo “comprarsi” un’intera identità, un intero guardaroba dettato da un unico Guru (anche questo è un marchio!).

Bisogna infatti considerare che se gli adolescenti tendono a dividersi secondo preferenze legate al brand, allo stesso modo il marchio tende a definirsi come se fosse una persona. Esso, come il divo della musica e del cinema, ha un’identità ben definita, qualcosa che è capace di suscitare sentimenti ma anche di ricambiare per la fedeltà accordatagli. E’ capace di esprimere non soltanto emozioni (come il baffo della Nike, oramai collegato all’idea della forza di volontà, nel raggiungimento dei propri obiettivi esistenziali) ma nello stesso tempo, come faceva Jane Fonda sulla guerra nel Vietnam, o Brigitte Bardot sulle pellicce, è capace di esprimere opinioni proprie su problemi di natura sociale. Pensiamo alle campagne Benetton, con le contestate foto di Oliviero Toscani: in esse non vi era alcuna attinenza al prodotto reclamizzato, in questo caso una linea di abbigliamento, quanto l’affermazione attraverso immagini più o meno crude di problemi di scottante rilevanza sociale. E se il marchio è una persona, che ha un’identità ed è in grado di esprimere opinioni, allora esso può anche legittimamente amare ed esigere di essere contraccambiato: non è quindi cosi singolare che le magliette in voga qualche estate fa recitassero lapidarie “J’adore Dior!”.