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Un “bongiorno” d’allegria. Mike, l’italiano e gli italiani.

30/11/2009 9298 lettori
4 minuti

C’era una volta la paleotelevisione. Era quella degli anni del monopolio (1954-1976), con la sua precisa identità di format e collocazione di generi, il suo deciso impegno educativo (anche sul versante della letteratura), le sue escursioni nel popolare e nel popolaresco, la cognizione del piacere dell’intrattenimento.   
In tanti, ipnotizzati dal piccolo schermo, hanno imparato dal maestro Manzi che non è mai troppo tardi; ma anche lui, il Mike nazionale, ha portato acqua al mulino dell’apprendimento dell’italiano, della sua diffusione dal nord al sud della penisola. È stato Umberto Eco, in un memorabile saggio, ad affrontare per primo il profilo comunicativo, fra il surreale e l’imbarazzante, di un “fenomeno” che avrebbe poi attirato l’attenzione di generazioni di studiosi e addetti ai lavori: semiologi e massmediologi, sociologi e linguisti. La sua allegria, di là dall’iniziale materializzazione del pressante desiderio di svago di un paese segnato dalla guerra, è stata soprattutto emblema di uno spettacolo che non può interrompersi qualunque cosa avvenga. L’evergreen Michele Bongiorno, decennio dopo decennio, ne è stato il più cinico, straordinario interprete: “Eccola qua” disse imperturbabile – era La ruota della fortuna – mentre una concorrente, accusando un mancamento, si accasciava a terra; la poverina si ripeteva una seconda e poi una terza volta e lui, sempre come nulla fosse: “Sta per svenire un’altra volta”; “Un momento sta svenendo di nuovo”.
Con la neotelevisione, e quindi la neo-neotelevisione, quasi tutto è cambiato. Si è dissolto il diaframma fra format e generi, il ruolo formativo guai anche solo a nominarlo, pericolose le derive o le inarrestabili chine: dal terapeutico divertissement di un tempo, con i suoi felici scantonamenti nel ruspante sentimentale, alla cognizione del dolore dell’emotainment, con le sue teorie di piagnistei, le confessioni stracciacuori, gli intenerimenti a comando. Volgarità gratuite, risse da taverna, notizie-spazzatura hanno fatto il resto. Come si fa, in questo clima, a invocare allegria? Eppure Mike c’è riuscito. Ha recitato fino all’ultimo da Bongiorno mentre, intorno a lui, tutto precipitava.
In quell’allegria c’era intero il senso di un italiano picaresco e un po’ briccone, impertinente e farsesco, etichettato in tanti modi: deficitario, irriflesso, povero, informale standard… Era in realtà, l’italiano di Bongiorno, non molto diverso da quel che si potrebbe definire “parlato semplice”, incomparabilmente migliore dell’“urlato complice” di tanta sconcia, becera, cialtrona tv del Terzo Millennio. Gli perdoniamo così volentieri tutti gli strafalcioni (“Era ora che se ne vada a casa!”), le gaffe leggendarie, il machismo e i doppi sensi, gli impareggiabili slogan involontari di cui è stato campione. “Peccato, signora Longari, peccato”. Quanti giovani, che seguivano allora Rischiatutto, l’avranno detto negli anni Settanta per ironizzare su un insuccesso scolastico altrui. E quanto si sarà riso nel 1958, quando, di fronte a una concorrente che aveva avuto la stravagante idea di portare in trasmissione un gatto di pezza “collerico”, Mike pensò si trattasse del “nome di una nuova razza di felini” (“Corriere della Sera, 5 dicembre); quando pronunciò Pioics e Paolovì i nomi dei due papi Pio X e Paolo VI; quando, a una concorrente che gli aveva detto di lavorare in una legatoria, rispose quasi con candore: “E cosa lega?”; quando fece diventare una licenziosa bernarda l’innocente berlanda del testo consegnatogli dagli autori, correggendosi un attimo dopo l’esplosione d’ilarità generale (“Allora, attenzione donne, qual è il titolo di questa canzone? La filanda, La belinda, La bernarda? No, La berlanda, La berlanda”).
“Guarda che più si è ignoranti meglio si funziona, eh sai, te lo dico io. Io per esempio sono ignorante, che son qua da quarant’anni”, disse una volta. Ignorante? Forse. Ma di quella geniale ignoranza che se ne infischiava degli svantaggi culturali e si rimetteva interamente al giudizio del suo pubblico. “Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo. E il pubblico lo ripaga, grato, amandolo”. Lo ha scritto Eco nella sua Fenomenologia. Si sarebbe volentieri appropriato, il re dei gaffeurs, di una nota affermazione di Sant’Agostino: “Melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi”. Ma chissà come sarebbe uscita dalla sua bocca.

                         Massimo Arcangeli