Eppur si muove
Cittadina aquilana, residente in zona rossa.
(eh sì, bisogna presentarsi come nuove convenzioni richiedono. C’è da dire – per chi non è dell’Aquila - che ormai negli incontri fra amici e conoscenti o nelle presentazioni a nuove persone, accanto al proprio nome e al saluto è prassi specificare: casa A, B, C, D, E, F o zona rossa. Sulla base di tale classificazione infatti la nostra vita ha preso forma e – amara – sostanza. Dettaglio, dunque, non affatto trascurabile).
Si diceva, cittadina aquilana, zona rossa, dall’occhio attento – per deformazione professionale – ai processi sociali e comunicativi in corso.
Eppur si muove, ebbene sì.
Nonostante la disgregazione fisica, sociale e psicologica che, nostro malgrado, siamo stati costretti a vivere nei mesi passati e tuttora, nonostante i viaggi dalla costa, le sistemazioni precarie, i traslochi, nonostante i chilometri, il traffico fuori e il vuoto intorno. E dentro.
A quasi un anno dalle 3.32 del 6 aprile 2009 vedo innescarsi un movimento che viene dal basso, vedo nascere, spesso inconsapevolmente nelle persone, il desiderio di sapere, fare e partecipare. Lo ascolto nelle parole, lo condivido sui social network, lo leggo negli sms, ma soprattutto lo ammiro nei volti, negli occhi, nelle mani.
È il bisogno di tornare a vivere, di risollevarsi dal dolore e dalla polvere, di riappropriarsi di quegli spazi che sono stati teatro e scenario della quotidianità di ognuno, di tornare a far respirare le proprie famiglie e le proprie case.
Sui libri la chiamano sfera pubblica. Ed è ciò che l’uomo di più alto e sublime possa mettere in atto: parlare, ragionare ed agire di conseguenza, insieme agli altri, per il bene comune, per l’interesse generale della propria collettività. Dove per “pubblico”, infatti, si intende il mondo stesso, in quanto comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi occupa privatamente: “vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune” – come un tavolo che è posto tra coloro che stanno seduti dall’una e dall’altra parte – “il mondo come ogni in-fra mette in relazione e separa gli uomini allo stesso tempo. La sfera pubblica, in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a vicenda” [Arendt, H. (1958) The Human Condition, tr. Sergio Finzi, Vita activa, Bompiani, Milano, 1964]. I cittadini aquilani vogliono ritrovare la propria agorà, rimetterla in sicurezza. Vogliono ricostruire il tavolo attorno al quale sedersi, insieme, per condividere il proprio mondo in comune.
Cosa c’è di più lontano in tutto questo dai superficiali chiacchiericci di chi, dall’una e dall’altra parte, meschinamente e strumentalmente si appropria o mette una distanza da questo tipo di movimenti e desideri? È così difficile comprendere che l’unico interesse dei cittadini aquilani sia quello di tornare a sentire battere il cuore della propria città e delle proprie vite?
È tempo di comunicare con le persone e di capire che la sfida che si ha di fronte è troppo grande e troppo difficile per essere giocata da soli. Si è ormai nel pieno ed affermato sviluppo di quel processo, avviato negli anni ’90, che ha portato le pubbliche amministrazioni, almeno sulla carta, a cambiare rotta, a rompere quella campana di vetro entro la quale il potere poteva sentirsi protetto e accessibile a pochi e a mettere piuttosto al centro il cittadino, attribuendo significato e valore a concetti come trasparenza amministrativa, ascolto e partecipazione democratica. La politica è chiamata a questo compito fondamentale e urgente, di fronte al quale non può e non deve tirarsi indietro.
E io adoro usare il termine politica, perché è un termine alto, imponente e carico di responsabilità che non può essere scalfito da quell’insieme di interessi personali e sleali che spesso hanno il sopravvento ma che nulla hanno a che fare con il “bene comune” insito nel valore della polis in esso contenuto.