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Immigrazione e informazione pubblica

09/02/2009 12485 lettori
4 minuti

Le nuove forme di discriminazione razziale sembrano viaggiare su Facebook, il social network che spopola tra giovani e non solo, che ha definitivamente abbattuto tutti i confini spazio-temporali, permettendo la condivisione immediata di idee e contenuti di ogni genere.

“Via gli zingari dall’Italia”, “L’Italia agli italiani”, “Quelli che sono stufi degli autobus pieni di extra-comunitari”, “Via i cinesi dai bar”, “Ripuliamo i portici dai marocchini sporchi”, “Basta extra-comunitari”, “Rimandiamo le albanesi sui marciapiedi di Tirana”, “Accendiamo i rom, i cinesi, i musulmani, per un’Italia migliore”, “Diamo fuoco ai campi nomadi insieme agli zingari”, “Alziamo gli argini del Tevere con i corpi degli zingari abbattuti!!!”, “Io odio i cinesi”, “Spariamo ai barconi di clandestini”, “ W Mussolini, fuori i clandestini”, “Mandiamo gli extracomunitari fuori dai coglioni”, “Quelli che odiano gli immigrati”, “Tornate a casa vostra”, “Puliamo l’Italia dagli immigrati”, “Tutta fogna da smaltire!”, “Perché non li usiamo come combustibile alternativo??”: sono solo alcuni dei nomi dei gruppi, più o meno numerosi, che affollano uno spazio virtuale di discussioni e pensieri reali. Immagini e terminologie che, per crudezza e universi simbolici richiamati, se non fossero ospitati da una piattaforma del web 2.0, si potrebbe credere che siano tratte da una rivista come La difesa della razza, tristemente nota regina del panorama propagandistico del fascismo italiano.

Una simile realtà richiede un’attenta riflessione, non tanto per attribuire responsabilità e dispensare ammonimenti, quanto piuttosto per capire da dove si origini un tale accanimento contro ciò che è percepito come altro, come diverso.

Lo scarto esistente tra la realtà del fenomeno migratorio e la percezione/rappresentazione che di essa si ha a livello collettivo si rispecchia in una scarsità o addirittura assenza di una reale e approfondita conoscenza di tale fenomeno. In riferimento a ciò, se sembra ormai unanime il riconoscimento del sistema delle comunicazioni massmediali quale uno degli elementi costitutivi il processo di formazione dell’opinione pubblica, seppure essa sia il frutto di un processo continuo e complesso in cui intervengono anche altri numerosi fattori, non si può non sottolineare il ruolo ricoperto dai mass media italiani che tendono, salvo rare eccezioni, a trattare il fenomeno migratorio in assenza di un serio approfondimento geo-politico, di spazi di analisi e di confronto e delle voci dei protagonisti. La tematizzazione mediatica dell’immigrazione avviene infatti per lo più secondo i noti meccanismi della spettacolarizzazione e drammatizzazione dell’evento. L’esempio più evidente a questo proposito è lo “sbarco clandestino”, protagonista delle reti televisive e delle pagine dei giornali, con l’enfatizzazione (e l’appiattimento) del tema dell’arrivo e la creazione di un’icona immediatamente riconoscibile in grado di veicolare e simboleggiare tutta una serie di elementi problematici, che finiscono per richiamare l’intero fenomeno migratorio, quando a non esaurirlo (gli sbarchi tra l’altro non rappresentano che la minima parte degli ingressi dei migranti, in larghissima maggioranza provenienti dalle frontiere del nord Italia). Un simile discorso vale per l’assoluta predominanza dei fatti di cronaca nera o giudiziaria, in linea con i tipici criteri di bad news che guidano i procedimenti giornalistici di selezione, confermando così una stretta contiguità tematica tra immigrazione e devianza.

Fra terminologie, immagini e toni che oscillano quindi ciclicamente tra una rappresentazione allarmistica dell’invasione di pericolosi clandestini e una pietistica e paternalistica nei confronti di poveretti in difficoltà, si esclude automaticamente la possibilità che il discorso mediale dedichi momenti di riflessione alle cause strutturali del fenomeno e alle sue connessioni con le dinamiche legate ai processi di globalizzazione economica, ai conflitti e alle crisi politiche internazionali, alle crisi economiche e demografiche di buona parte dei paesi occidentali, nonché agli stili di vita, alle problematiche e ai successi che quotidianamente e realmente vivono le numerose famiglie migranti.

Tale situazione viene a sua volta alimentata dai riflettori della politica, sotto i quali l’issue dell’immigrazione imperversa con toni molto accesi e come motivo di dibattiti e divisioni fra i diversi schieramenti e anche all’interno degli stessi partiti, nonché come punto di forza delle ultime campagne elettorali a colpi di sterili slogan demagogici. Risultato: una banalizzazione e semplificazione del fenomeno che nel discorso pubblico (e nei decreti legge), in un clima di crescente acredine e animosità, tende sempre più ad essere identificato con quello dell’insicurezza (e recentemente anche della crisi economica) e ad essere gestito e trattato come un fenomeno emergenziale anziché strutturalmente esistente e ordinariamente radicato nella società, quale i dati dimostrano che sia ormai da tempo.

Alla luce di tali riflessioni i nascenti gruppi di discussione in rete precedentemente citati non sembrano altro che una coerente estensione virtuale del clima sociale che stiamo vivendo e rimane forse ancora senza una risposta certa l’annoso interrogativo rispetto al punto in deve essere tracciato il confine tra la libertà di espressione del pensiero e il diritto degli altri ad essere rispettati nella loro individualità senza distinzioni di religione, etnia, orientamento sessuale, opinioni politiche.

La democrazia nell’epoca delle nuove tecnologie d’altra parte è anche questa: da un lato inedite possibilità di conoscenza e partecipazione dei cittadini, dall’altro insidie derivanti, come ammoniva Rodotà già alcuni anni fa, dall’ossimoro derivante da un senso di totale libertà in una società dall’“implacabile sorveglianza”. Sta quindi al cittadino stesso saper cogliere l’enorme potenzialità di questi nuovi mezzi di comunicazione e viverli come inesauribili risorse per informarsi criticamente, per discutere, dibattere, confrontarsi costruttivamente con chi la pensa in maniera diversa e partecipare così alla vita democratica della comunità, senza cadere nel rischio della superficialità che troppo spesso, in riferimento a tali fenomeni sociali così complessi, si cela dietro l’immediatezza e la velocità che la società liquida baumaniana ci impongono. Diritto di informazione non significa solamente libertà di esprimere il proprio pensiero ma anche diritto di essere informati e di informarsi, senza dimenticare che informare e informarsi sono attività che richiedono sforzo e mobilitazione intellettuale, attività nobili e civiche che costituiscono la base della vita democratica.

 

Fabrizia Petrei